IL Libro di Qoelet o Ecclesiaste

Ecclesiaste

Capitolo 1, 1- 2,26

Il primo versetto è il titolo del libro, apposto da un editore finale, mentre i versetti 2-3 sono tesi dell’opera di quest’anonimo pensatore. L’argomento fondamentale è espresso attraverso la dichiarazione del v.2 che raccoglie in unità soggetta l’intero testo: “Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità”.

In altre parole l’autore propone il suo pensiero: il vuoto e la vanità della vita. I cicli della natura e della storia si ripetono costantemente. Non vi è nulla di nuovo. La realtà e la storia sono prive di qualsiasi senso nel loro procedere ineluttabile e rigidamente scontato. In questo movimento sempre monotono e reversibile la curiosità scientifica e la ricerca sapienziale non hanno significato alcuno, è fatica sprecata, poiché “chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (vv.9-10).

Anche l’immortalità nella fama dei posteri è illusione presto infranta.

L’autore si veste delle spoglie di Salomone, esemplare perfetto di re sapiente, secondo un procedimento caro alla letteratura sapienziale. Da quest’angolo di visuale ideale, l’autore può demolire a ragion veduta l’arco delle illusioni umane.

Salomone ha potuto assaporare senza inibizioni tutte le esperienze umane (1 Re 10), ma ha scoperto solo che l’ansia di spiegare razionalmente ogni cosa è solo fame di vento (1,12-18). Si è lanciato anche in piaceri raffinati, in frenetiche attività edilizie, su ricchezze incommensurabili, ha ottenuto una fama esaltante. Ma un identico ritornello sigilla ogni piacere ed attività: “Anche questo è vanità” (2,1.11). Si è riaccostato alla sapienza (2,12-16) solo per comprendere che la morte pone inesorabilmente sapiente e stolto sullo stesso piano. Il riaffiorare dell’illusione del piacere e dell’attività non può che raggiungere lo stesso risultato (2,17-26): la rapina della morte cancella tutto ciò che avviene e le cose per cui lavoriamo saranno godute da altri dopo di noi. Tale è la vanità della vita “sotto il sole”, perché non vi è gioia né soddisfazione per chi vive senza Dio.

Parrebbe che gli ultimi versetti contengano un barlume di soluzione simile ad un edonistico “carpe diem” (cogli l’attimo) oraziano. In realtà l’autore non propone un sistema d’esistenza ma solo una constatazione: le realtà terrestri non offrono nessuna soddisfazione appagante, ma l’uomo in loro può cogliere quei frammenti di bene semplice e limitato che Dio gli imbandisce innanzi. Questo invito, piuttosto rassegnato pur nel suo minimo ottimismo, sarà ripetuto a più riprese nel testo.

Capitolo 3, 1-15

C’è un tempo per tutto nella vita (1-9), e in una progressione quasi litanica di sette coppie di “momenti e di tempi” l’autore mostra che gli eventi della storia ruotano su un disco uniforme secondo cicli sempre reiterabili:

Tempo di nascere, tempo di morire,

tempo di piantare, tempo di sradicare,

tempo di uccidere, tempo di curare,

tempo di demolire, tempo di costruire,

tempo di piangere, tempo di ridere,

tempo di lutto, tempo di baldoria,

tempo di gettare via le pietre,

tempo di raccogliere le pietre,

tempo di abbracciare, tempo di staccarsi,

tempo di cercare, tempo di perdere,

tempo di conservare, tempo di buttare via,

tempo di strappare, tempo di cucire,

tempo di tacere, tempo di parlare,

tempo di amare, tempo di odiare,

tempo di guerra, tempo di pace.

Ne consegue un vigoroso ridimensionamento dell’orgoglio intellettuale e pratico dell’uomo: egli ha il senso dell’eterno (11) in altre parole della durata e della consistenza della realtà, perché Dio ha stabilito così. Ma non comprende cos’è il tempo, non riesce a capire tutta l’opera di Dio. Egli desidererebbe agire, ma Dio ha già composto le cose in maniera definitiva e incomprensibile.

L’uomo così impara ad averne timore. Nella vita esiste ingiustizia e corruzione, tuttavia Dio ha stabilito un tempo per il giusto giudizio, anche se tutti gli uomini devono morire. Cosicché “non c’è più nulla da aggiungere e nulla da togliere” (14).

Capp. 3,16- 4,3

I guai dell’esistenza umana sono un groviglio di contraddizioni in cui l’uomo imperversa come una belva. Gli uomini si affaticano a lavorare, cercando di superarsi gli uni gli altri, e non si fermano mai un istante per chiedere a che pro.

L’idea è espressa attraverso due osservazioni personali (3,16-4,1) che introducono due riflessioni in cui sono poste in scena la società e la morte.

La prima esperienza è provocata dall’ingiustizia delle magistrature: essa rivela la stupidità bestiale dell’umanità ( il termine “bestia” collega i vv.19-21). Ecclesiaste sa che alla morte dell’uomo e dell’animale il soffio vitale di Dio è ritirato (12,79 e che, conseguentemente, uomo ed animale, privi dell’intervento creatore e vivificatore di Dio, piombano nella polvere, nel nulla. La miseria radicale accomuna l’uomo con la bestia e motiva quasi metafisicamente la “non superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità” (v.19).

Una non superiorità che era dimostrata già dall’agire ingiusto dell’uomo. Dio non parla da cieli astratti, ma conduce il suo discorso nel tessuto spesso tormentato della storia secondo una sua logica essenziale che ha talvolta di sopra una superficie oscura, quell’umana.

La seconda osservazione è desunta dalle espressioni e dagli sfruttamenti cui sono sottoposte tante classi di persone da parte di altre. La morte è allora prospettata paradossalmente come una benedizione in senso opposto alla concezione cristiana della pace beata dei defunti.

A partire da questo punto i pensieri e le osservazioni si alternano più frequentemente con i consigli e gli insegnamenti secondo lo stile proverbiale adottato dal saggio. La sapienza può apparire stolta agli occhi del mondo, ma Ecclesiaste continua chiaramente a credere in lei e desidera che gli uomini ne vivano (12,9-11).

Capp.4, 4-16

Attraverso due considerazioni personali (vv.4-6; 7,12) e un aforisma popolare commentato (vv.13-16) si riprende la vanità d’ogni impegno umano. Sia l’indolenza proverbiale dello stolto (v.5; Prov. 6,10-11; 19,15) che il maniaco capitalizzare o il lavoro disperato per accumulare ricchezze (vv.6-12) sono vanità e si riducono alla fine ad un pugno di vento (v.4). Alla solitudine dell’avaro senza eredi l’Ecclesiaste contrappone col suo gusto dei contrari la positività “dell’essere in due” attraverso tre vivaci esemplificazioni (vv.9-12). Tuttavia riprende subitoli suo pessimismo con un’altra allusione piuttosto oscura a vicende della politica (vv.13-16). Il re anziano non è necessariamente simbolo di saggezza, ma neppure il giovane che riesce ad impadronirsi del potere con un colpo di stato eliminando la vecchia gestione, non è segno necessario di progresso.

Capp. 4,17-5,6

Convinto che il dialogo con un Dio misterioso, il cui agire è insondabile, non possa che spegnersi nell’interrogativo (“Perché”), Ecclesiaste raccomanda per la religione il massimo della sobrietà e consiglia circa le promesse fatte a Dio. Infatti, anche nei voti l’impegno all’onestà del mantenimento del contenuto promesso è indispensabile: altrimenti, qualora si debba ricorrere a Dio (“l’angelo” o “sacerdote” nel testo del v.5) per la commutazione o la dispensa dall’impegno, è meglio semplicemente non fare voti (5,3-5). E avere, nei confronti del Signore l’atteggiamento essenziale (v.6), insegnato dalla sapienza tradizionale del “timor di Dio”.

Capp. 5,7- 6,12

Ecclesiaste sotto il segno di una riflessione personale consiglia anche l’atteggiamento da assumere verso il denaro. Un altro dei mali della vita è l’andare in fumo delle ricchezze. Per vivere bene, goditi i frutti del tuo lavoro e l’eventuale prosperità perché si tratta di doni di Dio. L’ombra della morte che si proietta su tutta la nostra vita reclama la spogliazione completa, identica a quella della nostra venuta al mondo Unica regola di vita sia, allora, secondo l’insegnamento dell’autore, il cogliere le piccole gioie donate da Dio negli eventi quotidiani (vv.17-19). La gioia quindi è l’antidoto alla malinconia di fronte al trascorrere degli anni.

La serie di riflessioni dei vv. 7-12 è molto varia e disorganica ma è sempre nell’atmosfera principale dell’autore: le classi tradizionali ben diverse di “povero” e “ricco”, “stolto”, “sapiente” sono tutte in realtà su un piano di miseranda parità.

Inoltre, Ecclesiaste sferza con una serie di proverbi e di epigrammi, non sempre di facile comprensione, la rapacità delle gerarchie (vv.7-8): il v.8 è oscuro e corrotto nel testo originale e ricostruibile solo con congetture. La Bibbia della CEI traduce: “L’interesse del paese in ogni cosa è un re che si occupa dei campi”.

Capitolo 7

Il saggio tiene conto della morte al pari della vita, di cui ha un’idea realista; sa godere nei tempi felici e imparare da quelli cattivi. Ecclesiaste constata un’altra delle anomalie dell’esistenza. Vi sono buoni che muoiono giovani e malvagi che invecchiano. La sapienza esamina ogni cosa, ma una vita non basta per comprendere tutto. L’uomo, così come Dio l’aveva creato, era in ordine; i guai, se li è procurati da solo.

Possiamo enucleare tre blocchi di riflessione e d’aforismi. Il primo è racchiuso nei vv.1-14 ed è costruito secondo una tecnica comune alla stilistica sapienziale perciò sette proverbi popolari sono accostati tra loro perché legati alla comparazione “meglio di…”.

Ne nasce un’illustrazione vivace, anche se diseguale, della condizione umana intrisa di morte, dolore e ansietà: “Osserva l’opera di Dio, chi può raddrizzare ciò che Egli ha fatto curvo?” (v.14).

Il secondo complesso di riflessioni (vv.15-22) è una celebrazione della regola aurea della moderazione che non è indifferentismo morale, ma realistica consapevolezza dell’imperfezione radicale dell’uomo. Gli eccessi estremistici si toccano; fanatismo perfezionistico e sfrenata follia sono entrambi da scartarsi (vv.16-18).

Infine, nei vv. 23-29, con esperienze attinte alla banalità quotidiana (vi è anche la scontata e tradizionale punta di misoginia), l’Ecclesiaste va alla ricerca della “ragione delle cose”, della linea di demarcazione tra follia e sapienza.

Tuttavia la profondità radicale della realtà sfuggirà sempre.

Come già detto in precedenza, l’uomo che pure è stato creato da Dio “retto” (v.29), escogita tali e tante complicazioni con i suoi vani ragionamenti da non riuscire a capire e a spiegare nulla.

Capp. 8-10,3

Da notare che dal cap. 7 il procedimento del pensiero di Ecclesiaste si è abbandonato allo stile antologico caratteristico della letteratura sapienziale popolare. E’ il caso anche di questa sezione in cui si presentano nei primi versetti (8,1-9) considerazioni sui rapporti col potere politico e in seguito (8,10-15) una meditazione sulla sofferenza del giusto e, più in generale, sulle difficoltà della teoria della retribuzione.

Per il primo il tema si richiama il tradizionale insegnamento sulle norme protocollari e di convenienza da osservare nei confronti dei detentori del potere; ma tutto è relativizzato dal richiamo finale alla morte e alla miseria della condizione umana (8,6-9). Non resta allora che rassegnarsi agli scarsi beni racchiusi nel “mangiare, bere e stare allegro” (8,15), secondo il consueto monito dell’autore.

In 8,16-9,12 si notano ancora alcune meditazioni sparse sull’impenetrabilità dell’agire divino, insondabile anche all’occhio più saggio (8,16-9,1), e sul mistero del destino finale dell’uomo che si affaccia solo sulla morte, identica sorte riservata sia ai giusti sia agli empi (9,2-12). La spettrale sopravvivenza dell’Ade ebraico (lo Sheòl) non può certo essere motivo di conforto. Allora, in forte contrasto con la grigia scena dell’aldilà in cui l’uomo è ridotto ad una larva inerte e snervata, si erge il vivace godimento della vita terrena. Infatti, la sventura è in agguato sulla nostra felicità, come la rete che raccoglie i pesci o come il laccio in cui s’impiglia l’uccello.

In 9,13-10,3 si narra una parabola concisa e densa che traduce l’idea tradizionale della superiorità della sapienza sulla forza, ma anche della sua estrema vulnerabilità, poiché è presto dimenticata e disprezzata (9,13-16).

Il senso della breve parabola militare è puntualizzato da una serie di proverbi sul contrasto sapienza-stoltezza, costruiti secondo la tecnica della comparazione (“meglio di…”), già notata in 7,1-8. L’adagio, piuttosto curioso di 10,1 è da ricostruire congetturalmente, essendo il testo ebraico corrotto.

Capp- 10,4-12,14

Nei capitoli 10,4 -11,6 vi è un’ultima miscellanea di precetti, proverbi e riflessioni prima della gran finale del libro. Temi e tono generale sono simili a quelli d’alcune collezioni dei Proverbi e spesso frutto dell’ambiente della sapienza popolare e professionale alla quale anche Ecclesiaste apparteneva secondo l’informazione contenuta nell’epilogo dell’opera (12,9). In più di un verso è però possibile ritrovare l’impianto originale dell’autore che rielabora secondo la sua prospettiva il materiale tradizionale. E’ il caso di 10,5-7, carico d’ironia sul successo della follia in politica e sugli arrampicatori sociali. O anche 11,5-6 dove ritorna il motivo dell’inscrutabilità dell’azione divina (vedere 3,11; 7,13-14) e sulla conseguente instabilità dei risultati dell’impegno umano nel mondo.

In 11,7-12,8 è racchiusa l’ultima pagina di questo libricino sconvolgente. La meditazione sullo scandalo della vita è condotta dall’angolo di visuale della fine, la morte. La giovinezza e la gioia appaiono quindi in tutto il loro splendore inebriante, ma anche nella loro intima fragilità.

In una prima scena (11,7-10) si celebra con passione e nostalgia la giovinezza che deve essere goduta con pienezza perché è un istante, “un soffio è la nerezza dei capelli” (11,10). E’ il costante consiglio di Ecclesiaste: godere le piccole gioie sparse nella vita senza attaccarvi cuore e speranza perché anch’esse sono vanità.

In dittico viene subito accostata una grandiosa e persino commossa scena in cui lampeggia la personificazione della “vecchiaia” (12,1-8), il cui disfacimento è analizzato attraverso una serie di metafore. Meteorologiche innanzitutto: la tarda età è la stagione invernale delle piogge e delle nubi (12,2). Domestiche e fisiologiche: l’organismo senile è rappresentato come un immenso palazzo in sfacelo in cui i custodi (le braccia), le guardie (gambe) e le donne che macinano alla mola (i denti) si bloccano, in cui le signore che occhieggiano dalla finestra dell’harem (occhi) e i rumori, il cinguettio degli uccelli, i toni del canto (orecchie) si spengono. Metafore vegetali: secondo la medicina popolare si descrivono i sintomi dell’organismo decrepito nel quale appaiono debolezza e vertigini, la canizie simile al fiore del mandorlo, l’artritismo che rende ben diversi dalla saltellante cavalletta e l’impotenza sessuale (il cappero era un afrodisiaco). Metafore ancora domestiche: tutto si spezza, la lucerna, l’anfora e la carrucola del pozzo che si fracassa.

Tutto è ormai finito; come in 3,20, si profila il destino della polvere, in altre parole il nulla, appena Dio avrà tolto il principio di sussistenza. La tesi dell’autore che ha aperto il libro (1,2) lo chiude come suo ultimo testamento (12,8).

Epilogo: L’elogio di Ecclesiaste

Dal momento che Ecclesiaste era un maestro sapiente insegnò al popolo ciò che sapeva. Studiò, inventò e compose molti proverbi. Egli cercò di esprimersi in modo affascinante e piacevole, scrivendo cose vere. Infatti, le parole dei sapienti sono come colpi di frusta. Le raccolte dei proverbi sono come paletti ben piantati. Ecclesiaste riferendosi ad un suo discepolo, gli dice che non si finisce mai di scrivere libri, ma che il troppo studio esaurisce le forze.

In fin dei conti, aggiunge, una sola cosa è importante: “Credere in Dio e osservare i suoi Comandamenti”.

Come possiamo osservare si tratta di un appello al “timor di Dio” e alla preoccupazione per il giudizio divino.