Il Libro della Genesi: Capitolo 6 e 10

I giganti

“Quando gli uomini iniziarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie, i figli di Dio dissero che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora il Signore Dio disse: Il mio Spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni. C’erano sulla terra i giganti a quei tempi quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi” (Gen. 6,1-4).

Vi è probabilmente un’utilizzazione di un mito abbastanza comune sulla razza di superuomini, frutti di matrimoni misti tra donne e dèi, totalmente purificato da tutto fondo politeistico originario, serve all’autore jahwvista per affermare che la corruzione è totale: anche i giganti sono corrotti. Il male avanza: unica regola dei rapporti il puro piacere e il libero amore.

Come possiamo notare il brano evoca leggende e saghe antiche di cui è difficile affermare quale sia stato il contenuto vero. L’autore sacro però ritiene importanti questi brandelli di memorie per offrirci un quadro della dimenticanza, perdita e confusione di rapporti fondamentali.

Il primo è nuovamente il tema della fraternità, sul rapporto uomo-donna: “Ne presero per mogli quante ne vollero”. Leggiamo qui l’inizio della considerazione della donna quale oggetto, quale cosa; non come un “tu” con cui avviene uno scambio unico ed indivisibile. La donna è vista come forma di possesso, non nella sua dignità pari a quella dell’uomo. Tuttavia c’è un altro aspetto non meno inquietante ed è stato dato dalla menzione un po’ oscura dei giganti, quasi che l’umanità si sia illusa e si possa illudere di creare uomini con poteri divini, superuomini.

Pensiamo alla tremenda tentazione della biotecnologia, prendere in mano la vita, moltiplicarla, creare nuove razze d’umanità, nuove forme del vivere, immaginare che la terra possa essere oggetto di sfruttamento totale e che l’uomo debba vivere in tubi stellari. Tutti progetti che la scienza, credendosi onnipotente, elabora senza più fermarsi e smarrendo contemporaneamente il rapporto equilibrato dell’uomo con la terra.

Questo passo erratico della preistoria è servito all’autore in modo impressionante per introdurre la narrazione del diluvio, perciò fu conservato (vv.1-4).

Il diluvio

Il diluvio ha nell’economia della storia delle origini la portata di una creazione: Dio ricomincia con Noè una nuova umanità. Così la storia della salvezza continua nonostante l’espandersi del male in maniera impressionante. Chi non desidera collaborare al progetto di Dio non può impedire a questo disegno di continuare a realizzarsi. Alla fine del giudizio di Dio, che è salvezza per chi crede e rovina per chi non si fida della sua Parola, Dio getta il suo arco (l’arcobaleno, che naturalmente esisteva anche prima) sulle nubi in segno di pace: la sua volontà è di restare in alleanza con l’umanità.

Caino si è pervertito di fronte all’insuccesso; i Cainiti davanti al successo; i Setiti, speranza dell’umanità, cedono di fronte alle donne dandosi al libero amore. Tutti hanno avuto la loro prova dopo Adamo e hanno ceduto. Dio ricomincia con uno che ha resistito: Noé.

Anch’egli ha la sua prova: deve credere al diluvio e prepararsi. E Noé credette (Eb.11,7). Con lui Dio ristabilisce il patto e ridà la benedizione, il potere sugli animali e il segno-memoriale della sua fedeltà, l’arcobaleno. Questo è il significato profondo del diluvio. Per il resto, anche in questo caso, non serve insistere sul come avvenne questo diluvio né sugli altri particolari intorno all’arca e gli animali. Molto tempo prima di Mosè una narrazione del diluvio era diffusissima in Mesopotamia. E del resto il ricordo di un’inondazione apocalittica è molto diffusa tra i popoli che non sembra abbiano avuto contatto con il mondo mesopotamico come le tribù dell’America.

Della sua fondamentale realtà non pare, dunque, possibile dubitare, anche se non può essere identificato con nessuna inondazione provocata ad Ur, come ad Uruk, come a Ninive, in diverse epoche, dal capriccioso mutare di corso dei grandi fiumi mesopotamici, il Tigri e l’Eufrate.

L’autore biblico ha preso due redazioni di quella tradizione, e, intercalandole una nell’altra senza sopprimere le diversità, ha dato alla tradizione comune un senso totalmente nuovo, che è appunto l’insegnamento religioso che egli vuol dare attraverso questo fatto testimoniato da ben due voci.

Il senso tipologico del diluvio è molto ricco. Nessun altro tema è più frequente nei Padri della Chiesa del simbolismo dell’Arca, figura della Chiesa che salva gli uomini per mezzo dell’acqua, figura del Battesimo.

Questo valore prefigurativo è già presente nel Nuovo Testamento, in particolare nella prima lettura di S.Pietro (3,18-21). Questa pagina di S.Pietro è importante anche perché ci fa capire che quando si compone un giudizio di Dio su una collettività, esso riguarda l’ambito temporale della loro storia, e non intende certo riferirsi al destino eterno di ciascuno, destino che rimane nelle mani di Dio secondo un giudizio personale (6,5-9.17).

I figli di Noè

La Genesi riconduce tutte le razze umane ai tre figli di Noè. La sua intuizione è di insegnare l’unità del genere umano. La maledizione di Canaan è legata alla storia dei cananei, gli abitanti originali della Palestina che gli Ebrei sottometteranno. Anche qui è sottolineata la sovrana libertà di Dio che elegge Sem, capostipite dei popoli della Mesopotamia e della Siria, fra cui gli Ebrei, e quindi Abramo e poi il Messia.

Di Iafet, il capostipite degli europei, si rileva la potenza demografica ( gli europei, secondo gli studiosi, hanno popolato tre continenti), mentre d’altra parte sarà ospite di Sem, perché gli europei riceveranno la conoscenza del vero Dio dagli Ebrei (9,18-28).

La tavola dei popoli

In questo tentativo di collegare gli antenati di Israele con il resto dei popoli si hanno la combinazione di tre elementi: una divisione geografica, una vera genealogia, una tradizione storica sulla nascita della prima potenza politica nelle città della regione babilonese-assira.

In pratica l’autore biblico ha dato il carattere di genealogia ad un raggruppamento fondamentalmente geografico. In questo contesto il termine “figlio” ha una portata vastissima vedendo l’equivalenza tra filiazione e continuità culturale, contiguità territoriale, coesione politica.

Questo documento biblico, apparentemente arido e invecchiato, contiene in realtà un insegnamento di sempre tragica attualità: la condanna di ogni razzismo.

Il quadro di questo brano è di tradizione sacerdotale, che sulla base delle conoscenze del mondo abitato che si potevano avere in Israele verso i secoli VIII – VII a.C. presenta la dispersione dell’umanità da un ceppo comune come compimento della benedizione data da Dio a Noè e ai suoi figli (9,1).

La pagina immediatamente seguente del capitolo 11, che è di tradizione jahwista, ha un giudizio meno favorevole. Una volta di più si notano attraverso i vari filoni tradizionali gli aspetti complementari della storia del mondo sottolineati dalla Bibbia: in tale storia non vi agisce soltanto la fedeltà a Dio, ma anche la malizia degli uomini.

La città e la torre di Babele

“Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: Venire, facciamoci mattoni e cuociamoli sul fuoco. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci sulla terra. Ma il Signore Dio disse: Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro. Il Signore Dio li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo si chiamò Babele, perché il Signore Dio confuse la lingua su tutta la terra e di là il Signore Dio li disperse su tutta la terra” (Gen.11,1-9).

Si tratta di una diversa spiegazione della divisione dei popoli e delle lingue. L’episodio, legato alle tradizioni delle genti immigrate in Mesopotamia, si riferisce a un tentativo di costruire intorno a Babilonia e alla sua torre templare, chiamata “ziggurat”, una grande unità etnica e politica.

Questo è il senso dell’espressione: “Costruiamoci una città e una torre, la cui sommità sia in cielo” del versetto 4. Si tratta di un’iperbole innocua come i grattacieli delle città moderne.

E’ facile notare che questo tentativo di creare con le proprie forze un grande impero si opponeva ai disegni di Dio. La diversificazione delle lingue, già in atto naturalmente, è presentata come un fatto provvidenziale che fece fallire quel tentativo comunitario, e il nome di “Babele”, che per sé significa “Porta di Dio” fu spiegato con l’assonanza a “babel”, che significa “confuse”.

Come possiamo osservare si tratta di un racconto misterioso, allusivo, pieno di simboli e si riferisce a situazioni originarie dell’umanità; in questo senso è esemplare. Narra non soltanto ciò che è avvenuto, ma ciò che può accadere, che avviene.

Che cosa è successo? Il punto di partenza è una situazione di perfetta comunione :”Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”. Ad un certo punto si scoprì il mattone: mentre prima si edificava con il legno, o mettendo le pietre una sull’altra facendo una casa al massimo di un piano, con il mattone, strumento ben maneggevole e di costruzione leggera, l’uomo inizia a pensare di non avere più limiti alla sua possibilità operativa e di essere in grado di giungere addirittura in cielo.

Di per sé siamo di frante ad un fatto tecnico che non è buono né cattivo. Tuttavia vi leggiamo dietro l’entusiasmo, la presunzione, l’ambizione che viene dalla scoperta; un po’ come oggi con i computer con cui possiamo imitare l’intelligenza e tenere il mondo in mano.

“Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci sulla terra”. Dalla soddisfazione della scoperta del mattone nasce un progetto esorbitante, la pretesa di un’impresa colossale, destinata a durare per sempre, a significare l’autosufficienza umana, la capacità che l’umanità ha di erigere se stessa in assoluto.

Siamo noi che ci diamo gloria e siamo noi gli arbitri del nostro destino presente e futuro. Sottilmente, senza una dichiarazione esplicita, laidamente, è rotto il contatto con Dio: Perché, in verità, è Dio che dà un nome, che lancia un ponte verso l’uomo. Il peccato dunque non consiste nel proposito di costruire una torre, bensì nella rottura della coordinata del timore di Dio, della soggezione dell’uomo al Signore del cielo e della terra.

Il testo biblico non fa applicazioni morali, ma le cogliamo nella conclusione del castigo divino: “Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.

In tale tentazione oggigiorno ci siamo dentro in pieno, molto più che nei secoli passati: le continua scoperte, infatti, ci fanno ritenere di non dover più dipendere da nessuno, di poter dare il nome a noi stessi.

Quanto più assumiamo responsabilità civili, sociali, politiche, scientifiche, tanto più ci troviamo immersi in una mentalità che ha perduto le coordinate, le ha confuse, spingendoci a vivere situazioni che vanno dall’esaltazione alla depressione, situazioni di sfiducia nella vita, di scoraggiamento, d’amarezza perché dalla voglia sfrenata di possedere tutto si passa facilmente al senso della propria povertà fisica, morale, spirituale e si finisce per non comprendere più niente.

Dall’inizio della Genesi fino all’Apocalisse il nome di Babilonia rimarrà legato all’inanità delle grandezze umane al cospetto del giudizio divino nella storia. Così si prepara la storia successiva di Abramo.

I costruttori di Babilonia dicono: “Facciamoci un nome (v.4) e falliscono; Dio dirà ad Abramo: “Io ti farò un nome” e il suo disegno non fallirà, perché è Dio a “fare” il nome. E’ chiaro che per l’autore biblico vi è qui la stessa posizione del peccato dei progenitori.

Del resto, l’episodio della torre di Babele richiama per opposizione quello della scala di Giacobbe del capitolo 28: gli uomini potranno sperare di raggiungere il cielo, di costruirsi una comunità duratura di amore, solo se il cielo si aprirà e discenderà una scala che leghi terra e cielo.

Così avverrà con Gesù Cristo, che raduna i figli di Dio dispersi e col suo Spirito ridà un’unica lingua (miracolo di Pentecoste) e fa l’assemblea delle nazioni in cielo (Ap.7,9-10).

Con questo episodio termina la preistoria biblica, che ha interessi, scopi e metodi diversi della preistoria scientifica, e ben più limitati. Tuttavia ad essa importava non di descrivere lo sviluppo delle civiltà, ma di presentare mediante pochi episodi tipici il disegno di Dio che dalle origini con amore e fedeltà inalterabile, nonostante il male del mondo, porta alla vocazione d’Abramo.

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