Natura e contenuto del discorso della montagna

Nel Vangelo di Matteo sono presenti cinque grandi discorsi:

  1. Discorso della montagna o discorso evangelico, capp.5-7. Matteo vi ha raccolto tutto quanto si riferisce all’entrata nel regno di Dio: chi vi può entrare, a quali condizioni. Come ci si deve comportare per appartenervi;
  2. Discorso della missione o discorso apostolico, cap.10. La diffusione del regno di Dio attraverso la predicazione apostolica;
  3. Discorso parabolico, cap.13: il mistero del regno di Dio in parabole;
  4. Discorso ecclesiastico, cap.18, o istruzioni per la direzione della comunità;
  5. Discorso escatologico, capp. 24-25, o di commiato: la manifestazione finale del regno di Dio.

Il discorso della montagna è dunque il primo di questi grandi discorsi, quasi il manifesto programmatico della missione salvifica di Cristo e la sintesi delle sue indicazioni morali per la comunità dei credenti.

Come gli altri, anch’esso va considerato intimamente connesso con le raccolte d’episodi che precedono e completano i discorsi. Nel caso del discorso della montagna, nei capitoli precedenti Cristo è presentato come il Servo-Figlio nel quale risiede lo Spirito del Padre (3,16-17), come colui che lotta e lotterà contro Satana (4,1-11); che ha guarito gli indemoniati (4,24); come la gran luce che si è levata su coloro che dimoravano in terra e ombra di morte, come colui che raccoglie intorno a sé una nuova comunità (4,18-22).

Il discorso della montagna è comunemente ritenuto una raccolta di massime di Gesù originariamente isolate, una raccolta di detti di Cristo elaborati e ordinati dall’evangelista Matteo. Esso ha un corrispondente formale nel discorso dei campi di Luca (6,17-49). Poiché il discorso dei campi è molto più breve del discorso della montagna si può pensare che nel discorso dei campi abbiamo una versione anteriore del discorso della montagna. E’ possibile ipotizzare che alla base dei due discorsi ci fu un unico testo aramaico reso in greco dai due evangelisti in forma diversa. Se ne deduce che il discorso dei campi è una raccolta di detti isolati di Gesù da lui pronunciati in occasioni diverse e lo stesso vale per il discorso della montagna che di lui è un ampliamento grazie all’aggiunta d’altri detti di Gesù.

Ognuno di questi detti è il compendio di una predica di Gesù o la sintesi di un ammaestramento dialogato, che poteva essersi protratto, sotto forma di domanda e risposta, per una giornata intera, oppure il risultato di una disputa con gli avversari. Si può esprimere questo con un’immagine: è possibile distinguere tra l’edificio del discorso della montagna, sorto in diverse fasi di costruzione, e i mattoni di cui si compone l’edificio costituito dai detti di Gesù da lui pronunciati in circostanze diverse.

Di questa composizione e formazione è segno anche la varietà dei generi letterari in lui presenti: beatitudini, precetti apodittici, regole generali o più particolareggiate, detti paradossali o sapienziali, brani polemici, parabole in parte allegorizzanti…

Prima di dare una risposta alla domanda circa lo scopo con cui venne fatta questa raccolta di detti di Gesù è opportuno esaminare la struttura del discorso della montagna:

  • 5,1-20 Prologo o introduzione costituita dalle beatitudini e dalle premesse sui rapporti tra la giustizia del discepolo di Gesù e la legge e i profeti;
  • 5,20-7,12 Parte centrale sulla nuova giustizia maggiore di quella degli scribi e dei farisei;
  • 5,21-48 Superamento della giustizia legalistica degli scribi con le sei antitesi;
  • 6,1-18 Superamento della giustizia ipocrita dei farisei, in particolare nell’elemosina, nella preghiera e nel digiuno;
  • 6,19-7,12 Descrizione della giustizia del discepolo, non più sulla falsariga della condotta legalistica e ipocrita degli altri.
  • 7,13-29 Detti conclusivi e parabola della cassa costruita sulla roccia o sulla sabbia.

Ora è più facile rispondere alla domanda circa lo scopo per cui è stata fatta questa raccolta. Secondo i risultati degli studi condotti sui primi tempi della comunità cristiana si evince una duplice forma di predicazione: l’annuncio e la catechesi; il kerigma e la didaché.

L’annuncio o kerigma è la predicazione missionaria diretta ai giudei e ai pagani. Il suo contenuto era la novella del Signore crocifisso e risorto (per esempio 1 Cor.15,3-5). La didaché (dottrina, catechesi) è la predicazione indirizzata alla comunità cristiana. Se il kerigma si rivolge agli ambienti esterni alla comunità, la didaché è invece destinata a coloro che ne fanno già parte. La predicazione apostolica segue quindi quest’ordine: prima si ha la proclamazione degli eventi salvifici e poi vengono le istanze morali che da loro derivano, prima il kerigma e poi la didaché. Il contenuto di quest’ultima è prevalentemente costituito da istruzioni riguardanti la condotta del cristiano, giacché essa ha un intento prevalentemente parenetico. La didaché però non si dispone intorno al kerigma come anello esterno, ma la contrario il kerigma viene continuamente ripetuto anche nell’ammaestramento diretto alla comunità e rappresenta il fondamento e il costante punto di riferimento della didaché.

Questo modo di affrontare l’insegnamento morale è assai diverso da quello usato nella stessa epoca dai moralisti greci, i quali, dopo Aristotele, avevano stabilito un sistema etico autonomo e avente in se stesso la sua giustificazione. Per il cristianesimo non esiste nulla di simile, le leggi morali nascono come risposta al vangelo.

Stando a queste osservazioni e tenendo presente il contenuto e la struttura del discorso della montagna è possibile vedere con quale scopo i detti di Gesù che lo costituiscono sono stati raccolti. Il tema è precisato in 5,20: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. Tema di questa didaché è dunque la condotta dei cristiani che supera quella dei loro contemporanei giudaici. Nel discorso della montagna abbiamo perciò una raccolta di detti di Gesù fatta in base a criteri parenetici, e potremmo allora concludere ch’esso rientrava nell’istruzione dei catecumeni o nell’insegnamento ai neobattezzati. In Luca questo catechismo è adattato ai cristiani provenienti dal paganesimo, in Matteo ai cristiani di provenienza giudaica.

Se abbiamo in tal modo precisato la funzione del discorso della montagna, ne possiamo allora dedurre un’osservazione assai semplice, ma d’importanza essenziale. Se il discorso della montagna è un catechismo per catecumeni o neobattezzati, doveva essere preceduto da qualche cosa. Veniva prima l’annuncio, veniva prima la conversione, la soverchiante gioia della buona novella. Esso quindi suppone il Kerigma su Gesù morto e risorto, Figlio di Dio e l’adesione in lui per la fede; i capitoli 1-4 di Matteo confermano questa tesi poiché contengono vari elementi kerigmatici.

Inoltre gli studi sulle beatitudini (che fanno da introduzione al discorso della montagna) hanno dimostrato che già esse erano un annuncio kerigmatico, una maniera speciale di annunciare l’avvento del regno di Dio; e questo loro carattere non è andato perduto, ma solo completato dagli evangelisti con quello di insegnamento sulle condizioni per entrare nel regno annunciato. E’ di grande importanza teologica il fatto che il discorso inizi con le beatitudini, cioè con il messaggio di salvezza costituito dall’avvicinarsi del regno di Dio per i poveri, i miserabili, per gli umili e gli affamati della giustizia di Dio. Gesù proclama ai poveri, oppressi, emarginati il lieto annuncio della venuta del regno, cioè che Dio sta per intervenire nella storia a rendere giustizia. Per questo si congratula con loro. E questo non per una mistica esaltazione della povertà e della miseria, ma per il fatto che Dio sta entrando in azione per toglierli dalla loro condizione umana. Inoltre nulla di moralistico ha la prospettiva di Cristo. I diseredati non sono per lui né più buoni, né più disponibili. In ogni caso egli si congratula con loro non per eventuali qualità morali e religiose. Li assume invece per quello che sono oggettivamente: indifesi, oppressi, esclusi. E proclama che Dio si schiera efficacemente dalla loro parte. Le beatitudini quindi non sono una parola consolatoria, né una moralistica predica a sopportare in vista di un premio futuro, ma un appello alla gioia, legittimato da un annuncio di liberazione.

Per Matteo l’accento, oltre che sulla grazia di Dio, cade sulla vita etica dei cristiani. Sono diventate implicite esortazioni alla comunità, perché essa si verifichi concretamente sul piano della conversione morale. Resta però sempre in primo piano la realtà del regno che, sotto diverse formulazioni, viene promesso quale salvezza finale a chi si è aperto effettivamente alle sue esigenze. Anche in Matteo le beatitudini non perdono il loro significato originale di proclamazione della salvezza e di lieto annuncio della grazia del Padre.

Le diverse interpretazioni del discorso della montagna

Qual è il senso del discorso della montagna? E’ una questione assai seria che non solo interessa l’insegnamento e la predicazione, ma coglie, se l’affrontiamo davvero, le radici della nostra vita cristiana. Sin dalle origini della Chiesa essa ha impegnato la cristianità tutta, e non solo i teologi. E numerose sono le soluzioni che a lei sono state date. Ne prendiamo in considerazione alcune.

Una soluzione al problema relativo al senso del discorso della montagna è data dalla teoria perfezionistica che dice: nel discorso della montagna Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò che egli esige da loro; spiega quale sia la volontà di Dio, come lei debba determinare la loro condotta. Gesù impartisce comandi e s’attende che i suoi discepoli li adempiano; quindi, secondo questa interpretazione, l’etica del discorso della montagna è etica dell’ubbidienza, come l’etica dell’A.T. Il suo spirito è lo spirito perfezionistico, è quello della giustizia fondata sulle opere, è legge, non Vangelo, per cui il discorso della montagna è tutto inquadrabile nell’A.T. e nel giudaismo. Questa interpretazione non misconosce il fatto che il discorso della montagna contiene esigenze etiche di difficile attuazione. Gesù però esige moltissimo, sebbene sappia che nessun uomo possa dare tanto, perché spera di indurre gli uomini ad impegnarsi seriamente per conseguire almeno un fine parziale.

Nel discorso della montagna sono contenute esigenze morali valevoli solo per un’elite. L’obbligatorietà del discorso della montagna non è di carattere universale. I comandamenti radicali di Gesù sarebbero, secondo questa teoria interpretativa, solo per una ristretta schiera di uomini, gli apostoli nel tempo della loro attività missionaria o un determinato ceto di “perfetti” nell’ambito della Chiesa, mentre i semplici cristiani viventi nel mondo sarebbero legati unicamente ai dieci comandamenti. Questa interpretazione “cattolica tradizionale” per la quale i comandamenti radicali di Gesù sono consigliati per i perfetti, cioè per quelli che si assoggettano agli ordinamenti di una vita ascetica per cui il discorso della montagna viene ridotto a una regola monastica. Ma c’è chi definisce questa interpretazione la tradizionale impostazione cattolica prima del Vaticano II. Mi sembra però che definire cattolica questa interpretazione e affermare che questa era l’etica dei due gradi o delle classi che dominava nella Chiesa cattolica prima del Concilio Vaticano II sia un po’ semplicistico e azzardato. E’ forse più esatto affermare, che questa era l’opinione molto comune fra i cattolici, non come teoria ufficiale, ma come pratica della vita.

La teoria dell’inattuabilità o impraticabilità, propria della ortodossia luterana, afferma prima di tutto che l’esigenza radicale di Cristo vale per tutti i cristiani e rifiuta decisamente la prospettiva dell’etica d’elite. La lettura del discorso della montagna non può provocare profondo spavento: Gesù pretende che siamo liberi dalla collera e perfino una parola scortese è passibile di morte. Gesù esige la veridicità assoluta, l’amore per il nemico. Chi vive così? Chi può soddisfare simili esigenze? A questo punto si innesta la teoria dell’inattuabilità, per la quale è un grave errore ritenere che il discorso della montagna sia attuabile. Quanto chiede Gesù non può essere attuato e Gesù lo sa. Qual è allora l’intento delle parole di Gesù? Per rispendere a questo interrogativo la teoria dell’inattuabilità si rifà alle dichiarazioni di Paolo sulla legge, secondo le quali la legge non è data per condurre alla vita; la legge cioè non salva, ma la fede. La legge dà consapevolezza del peccato ed è preparazione al vangelo, perché svela all’uomo la sua incapacità; indicendolo alla disperazione, gli apre gli occhi sullo splendore della grazia divina. Lo stesso vale per il discorso della montagna e tale è appunto l’intento di Gesù: egli vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige. Con le sue elevate, ma realmente vincolanti, direttive Gesù ci convince del peccato, perché noi, a causa del nostro essere-peccatori, non siamo capaci di osservarle. Il discorso della montagna stimola alla penitenza, è un elenco di peccati da confessare, per il quale l’uomo viene convinto della sua peccaminosa impotenza a compiere il bene. Nel discorso della montagna sta scritto quello che avremmo dovuto essere, ma che non saremo mai, né potremo esserlo. Il fine delle parole di Cristo sarebbe quindi duplice: anzitutto, l’uomo posto davanti a tali esigenze, dispera di raggiungere la salvezza con le sue sole forze; è costretto a riconoscere la sua miseria e la sua radicale impotenza a salire da solo la scala del cielo. In secondo luogo il discorso della montagna serve a portare l’uomo a gettarsi nelle braccia della misericordia di Dio e fargli dire con il pubblicano: “Signore, abbi pietà di me che sono solo un povero peccatore”. L’uomo, in definitiva deve aspettarsi la salvezza esclusivamente da Dio e non dai suoi sforzi; non deve fidarsi delle sue forze, perché le sue forze non sono capaci di conquistare niente.

Le esigenze del discorso della montagna sono da intendersi come un’etica interinale o temporanea, destinata ad una generazione di uomini vicini alla fine del mondo; si tratterebbe di leggi di emergenza, di leggi di eccezione, per il tempo finale, valide solo per il breve periodo precedente l’ormai prossima fine del mondo. In questo breve periodo antecedente la fine del mondo sono richieste opere straordinarie ed eroiche. Le parole del discorso della montagna sono incitamenti ad una tensione estrema delle forze prima della catastrofe, un ultimo invito alla penitenza prima della fine. Dato che questa attesa della fine del mondo si è rivelata un errore, anche il discorso della montagna non potrebbe rappresentare una dottrina morale universalmente valida per uomini che debbono vivere nel mondo; siccome l’attesa escatologica di Cristo non si è avverata, la validità del discorso della montagna risulta in un certo qual modo sospesa, almeno per il momento.

Secondo l’interpretazione che va sotto il nome di etica dell’intenzione, le esigenze concrete addotte nel discorso della montagna si propongono di illustrare solo una disposizione. Non si tratta di comandi reali, ma di formulazioni di un ethos, di un’etica dell’orientamento interiore che, nelle diverse circostanze in cui il cristiano si può trovare nel mondo, si può estrinsecare anche altrimenti. L’essenziale non sarebbe un fare alla lettera ciò che è realmente comandato, ma un “essere” ciò che nel discorso è supposto. Secondo un altro studioso Gesù esige la radicale obbedienza anche nella vita pratica, ma sotto l’aspetto contenutistico non intende affatto accampare delle richieste ben precise: ciò che per il singolo individuo rappresenta l’assoluto volere di Dio fluisce dalla situazione del momento. Gesù non intende porre davanti agli uomini nessuna richiesta contenutisticamente determinata, per cui il discorso della montagna non conterrebbe esigenze etiche precise. Esprimerebbe solo con delle esemplificazioni la novità della vita cristiana senza annettere carattere vincolante alle esigenze formulate.

L’interpretazione politico-sociale, sostenuta anche da Leone Tolstoj, vede nel discorso della montagna il progetto di una nuova società di amore e di pace, cioè del regno di Cristo sulla terra. Osservando letteralmente i comandamenti contenuti in esso sarà possibile questa nuova società. Il potere dello stato, l’esercito, la giustizia dei tribunali e l’ordine giuridico, tutte queste istituzioni dovranno essere eliminate perché si compia il regno finale dell’amore e della giustizia. Il discorso della montagna viene cioè inteso come una legge fondamentale o una carta costituzionale di una società perfetta.

Ricordo un’ultima interpretazione secondo la quale il discorso della montagna non intende affatto presentare comandamenti per questo mondo, ma descrivere i rapporti del perfetto mondo futuro. Il discorso della montagna non è connesso con nessuna questione morale; non è possibile giudicare, partendo da esso, la posizione di Gesù di fronte alla legge giudaica. Ma grazie ad esso si può indirettamente stabilire una cosa: quando verrà il regno definitivo di Dio, cesserà anche la legge giudaica. Allora sarà veramente possibile compierla anche nel suo più radicale, perché allora potere e dovere, legge e azione, volontà di Dio e desiderio dell’uomo coincideranno.

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