Le esigenze fondamentali etico-religiose di Gesù: La Sequela

Dopo avere esposto le enunciazioni programmatiche della predicazione di Gesù, Marco narra la vocazione dei primi discepoli, in altre parole delle due coppie di fratelli Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni (Mc.1,16-20). In questa relazione tipica della vocazione dei discepoli, all’appello di Gesù “Seguitemi” viene aggiunta l’osservazione “E quelli, abbandonate subito le reti, lo seguirono”. Si parla anzitutto di “seguire”, che significa letteralmente “mettersi al seguito di qualcuno”, andare dietro a Gesù, per accompagnarlo lungo il suo cammino, per essere testimoni delle sue opere e per aiutarlo nella sua missione.

Il senso primitivo della sequela sulla bocca di Gesù

Il messaggio di Gesù era rivolto a tutti gli uomini: tutti dovevano ascoltarlo, credere in Lui e volgersi a Dio con tutto il cuore. Di fatto, nei vangeli sinottici si legge spesso che grandi folle “lo seguivano”. Si deve tuttavia distinguere questa sequela generale ed esterna da quella speciale alla quale sono chiamati i discepoli. La loro sequela si caratterizza per questi aspetti:

  • Hanno ricevuto una speciale chiamata, una richiesta esplicita a diventare discepoli di Cristo;
  • Ricevono il compito di cooperare attivamente alla missione salvifica di Cristo: non sono soltanto i destinatari della salvezza, ma anche annunciatori della salvezza (Mc.6,7-13; Lc.10,1-20);
  • Ai discepoli vengono presentate esigenze particolari: ciò non vale solo per gli avvisi concreti che Gesù dà loro mandandoli nelle città e nei villaggi dei dintorni (Mc.6,8ss.). In misura più alta le sue parole danno interamente forma alla loro vita. Essi devono essere pronti a rinunciare a possedere una famiglia (Mc.18,28ss), a sopprimere ogni ambizioso desiderio di considerazione e di potenza (Mc.9,33ss; 10,42-45) e così pure essere pronti a perdere la vita per amor suo (Mc.8,34ss).

La sequela, intesa come mettersi al seguito di qualcuno, non costituisce una novità: gli scribi dell’epoca e dei secoli successivi raccoglievano, infatti, attorno a sé dei discepoli, i quali nel loro rabbi vedevano non soltanto il dotto che trasmetteva e spiegava loro gli insegnamenti orali, ma anche il maestro che li guidava nella pratica della legge. Il discepolato fondava una comunione di vita, un rapporto personale verso il legisperito più anziano, il quale era spesso circondato da un’alta venerazione a causa della sua pietà e osservanza rigorosa della legge. Ma, se la forma esterna della sequela di Cristo è comune a quella dei dottori della legge, il contenuto è essenzialmente nuovo: Gesù, nel chiamare alla sua sequela, si esprime in modo originale e fa un appello fino allora mai udito, unico, speciale.

Intanto il fine non era l’acquisizione di una formazione professionale (abilitazione ad essere rabbi), bensì una comunione stabile con l’inviato di Dio (Mc.3,14): la missione salvifica di Gesù e l’inizio del tempo della salvezza caratterizzano la sequela di Cristo.
L’autorità con cui Gesù chiama: è lui che ha l’iniziativa della chiamata e in ogni caso è lui che decide dell’appartenenza a sé. Il discepolo del dottore della legge si sceglie il suo maestro secondo il proprio impulso e la sua personale preferenza.
Ciò che lega i discepoli al maestro non è tanto la dottrina o la legge quanto la persona stessa di Gesù. Mentre i rabbi, ossia i maestri della legge, non vincolavano gli allievi a se stessi bensì alla legge, Gesù non dice “segui la legge” ma “segui me”. Per i rabbini la legge stava al di sopra di loro e dei loro allievi: insieme dovevano interpretarla. Per Gesù non c’è nulla e nessuno al di sopra della sua persona. Con la chiamata a seguirlo, egli fonda uno speciale rapporto del chiamato con sé, grazie al quale tutti i chiamati del N.T. sono detti discepoli: un rapporto di spiccata originalità, che in fondo è determinato dalla persona di Cristo. Come è lui che prende l’iniziativa di fare qualcuno suo discepolo, così è lui che dà forma e contenuto al rapporto dei suoi discepolicon sé. Ogni tipo di discepoli nel giudaismo di allora, sia il rapporto dei discepoli e dei rabbini con i loro maestri, sia l’unirsi dei discepoli di Giovanni il gran battezzatore del Giordano, sia l’entrata nella comunità di Qumran, che venerava il suo Signore della giustizia, non uguaglia neanche lontanamente ciò che Gesù intende ed esige quando dice a singole persone “seguimi”. Non è poi possibile confrontare la sequela di Gesù con forme ellenistiche, come la decisione di entrare in una scuola filosofica e di introdursi nella gnosi ermetica o farsi adepto di un culto misterico. Gesù, con il suo appello a seguirlo, fonda un rapporto specialissimo tra il discepolo e il maestro.
E infine, il compito affidato da Gesù ai discepoli è ancora diverso da quanto avveniva nelle scuole rabbiniche: non trasmissione delle opinioni del maestro, bensì comunicazione del suo messaggio e comunicazione della sua salvezza.

La sequela impone ai chiamati le condizioni più dure ed esige l’abbandono di ogni precedente legame: i chiamati devono abbandonare tutto (Lc.5,11; Mc.10,28), cioè famiglia, casa e villaggio (Lc.14,26; Mt.10,37), denaro e ricchezza (Mc.10,21), la professione (Mc.2,14) e ogni comodità della casa (Lc.9,58; Mt.8,20).

Per i discepoli di Gesù l’invito alla sequela diventa l’invito a partecipare alla sua missione. Ciò appare anzitutto nel fatto che “sequela” non è in primo luogo “imitazione”, bensì entrare nelle condizioni di vita di Gesù, partecipare al suo destino. Prendere parte alla missione e al destino di Cristo significa andare incontro al rifiuto, alla sofferenza e alla croce. Sequela implica quindi comunione totale di vita e di sofferenza con il Messia. A questo contesto di comunione di destino con Gesù appartiene pure il detto di prendere la croce, trasmessaci in molte forme. La croce non era per l’uomo di allora il simbolo di un sacrificio più o meno grande, oppure del peso che le necessità e le preoccupazioni impongono alla vita quotidiana, bensì il segno terrificante di una morte obbrobriosa. Quale che fosse l’idea originaria, il suo senso appare chiaro nella frase, aggiunta nella redazione più ampia del detto di Gesù: “Rinneghi se stesso” (Mc.8,34; Mt. 16,24; Lc.9,23). Questo autorinnegamento comporta una rinuncia radicale del proprio io con tutte le sue tendenze egoistiche fino all’immolazione della vita. Strettamente connesso è l’altro detto, espresso in forma paradossale, del “salvare e perdere la propria vita”. Gesù domanda a colui che si mette al suo seguito le più gravi sofferenze e, qualora lo esiga la professione della fede in lui, perfino il sacrificio della vita.

Il primitivo rapporto tra Gesù e i discepoli è quindi un reale modello di ciò che significa “seguire Gesù”; non, o almeno non solo e non prima di tutto, un’imitazione delle caratteristiche di Gesù, ma un legame personale con lui, nell’ascolto della sua voce, un camminare con lui lungo la sua stessa strada.

Riassumendo:

  • Gesù chiama alcuni a seguirlo e si tratta di un tipo di sequela profondamente nuovo e diverso nei confronti del rapporto maestro della legge-discepolo;
  • La sequela deve essere incondizionata e le condizioni poste vengono respinte;
  • La sequela esige la rottura con ogni precedente legame;
  • La sequela è partecipazione alla missione e alla sorte di Cristo.

Come la Chiesa primitiva intese la sequela di Gesù

Il seguire Gesù, con le caratteristiche che abbiamo descritte, è strettamente legato al modo dell’esistenza terrena, cioè spazio-temporale, di Gesù. La sequela prepasquale di Gesù è un “unicum” nella storia della salvezza. Dopo la passione, morte e resurrezione non è più possibile seguire Gesù nel modo vissuto da coloro cui questo invito fu rivolto direttamente da Cristo stesso, non è più possibile seguire Gesù come al tempo della sua esistenza storica. La Chiesa primitiva però riconosce la validità e la permanenza delle richieste fatte da Gesù ai primi discepoli. L’appello a seguire Gesù fu esteso a tutti i credenti: la Chiesa primitiva riferì le parole di Gesù, rivolte ai primi discepoli, a tutti i credenti e, data la sua particolare situazione, cancellò i confini tra la “predicazione di Gesù al popolo” e l’istruzione fatta da lui ai discepoli. Non ha quindi senso chiedersi se l’invito alla sequela vale solo per un ristretto gruppo di discepoli oppure è rivolto a tutti, poiché non si può tracciare una netta linea di demarcazione, perciò le esigenze che durante la sua attività terrena Gesù presentava ai suoi “seguaci” in senso stretto, ossia ai discepoli chiamati a vivere in comunione personale con lui e a collaborare alla sua predicazione, nella comunità postpasquale, quando non c’era più “sequela” in questo senso specifico, furono trasferite a tutti i credenti in Cristo.

In Atti 6-12 il termine “discepolo” diviene una designazione corrente per i membri della comunità. La Chiesa primitiva non distingueva più nettamente le particolari esigenze, poste da Gesù ai discepoli “chiamati” da lui ad una più stretta collaborazione, da quelle dirette a tutti i fedeli. Questo processo era comprensibile e giustificabile, se si voleva mantenere la sequela, che diviene adesso fede, obbedienza e servizio del Signore invisibile, che guida al cielo la comunità dei credenti in lui. Quanto Gesù aveva detto originariamente solo ai più fidati e fedeli, che restarono con lui come “piccolo gregge” (Lc.12,31), doveva valere ora nello stesso senso anche per i successivi credenti. E’ quanto esprimono più volte gli evangelisti attraverso le loro annotazioni marginali. Quanto dice Gesù sul dovere di seguirlo portando la croce si trova in Marco in una serie di detti che è intitolata: “Ed egli convocò la folla insieme con i suoi discepoli e disse…” (8,34). Luca dice nel passo parallelo: “A tutti” (9,23) e aggiunge nel corso della stessa frase: “Questi prenda la sua croce su di sé nella vita quotidiana”. L’uditorio nell’istruzione cristiana è costituito ora da tutti i credenti e catecumeni.

Se dunque si vuole interpretare esattamente l’idea di sequela nei vangeli, bisogna tenere continuamente presente l’accostamento dei due piani della manifestazione storica di Gesù e della predicazione della Chiesa primitiva (postpasquale). Ciò che è avvenuto un tempo in modo unico, ossia la formazione dei discepoli di Gesù, “che stessero con lui, per mandarli a predicare…” (Mc.3,14), si prolunga sotto una nuova forma nella Chiesa primitiva, che vive in comunione spirituale con il suo Signore e si sottomette alla parola da lui pronunciata una volta e sempre valida. In tal modo non poche istruzioni particolari per i discepoli vengono interpretate come direttive rivolte a tutti i fedeli. La sequela diviene una chiamata rivolta a tutti i battezzati, senza tuttavia dimenticare che essa può attuarsi concretamente in modo diverso per i singoli cristiani. A tutti viene chiesto di seguire Gesù, ma in modo diverso secondo la vocazione individuale e le esigenze fondamentali della sequela rimangono valide per tutti.

Giovanni ha fatto suoi i pensieri sulla sequela di Gesù in modo personale. In Gv. 8,12 Gesù ha questa espressione plastica e impressionante: “Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”. Qui non si parla più ormai di dietro a Gesù in senso letterale, ma, in un senso traslato, di un unirsi a lui spiritualmente, di tutto ciò che Gesù intende quando parla di fede. Giovanni tuttavia nel suo vangelo non scorda per nulla le espressioni dei sinottici sulla sequela di Gesù. L’espressione che si riferisce al perdere e al guadagnare la vita è riportata in 12,25 e ad essa se ne aggiunge un’altra, formulata secondo lo spirito giovanneo: “Chi mi serve, mi segua; e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (12,26). Per Giovanni la strada conduce attraverso la croce alla gloria celeste. Il Figlio dell’uomo sarà “innalzato” in due sensi: egli sale sulle croce ed entra nel mondo celeste. Quanti egli, come colui che è stato elevato e glorificato, “trae a sé” devono percorrere la stessa strada; ecco il perché della richiesta di seguirlo e, al contempo, la promessa che chi lo segue sarà là dove egli è. E’ il pensiero ripreso chiaramente in un dialogo di Gesù con Simon Pietro. Nella sala dell’ultima cena Gesù dice a questo discepolo: “Dove vado io tu non mi puoi seguire ora; mi seguirai più tardi” (12.36). Nel capitolo di appendice il risorto accenna al martirio e gli chiede “seguimi” (21,18s.) Il discepolo di Gesù deve sottomettersi alla volontà del Padre, che lo può condurre là dove egli non vuole.

La 1^ lettera di Pietro (2,21ss.) esorta a seguire Gesù nella sofferenza. La vecchia immagine è mantenuta a chiarificata, “deve seguire le sue orme”. In questa parentesi per i servi oppressi e soggetti a molte sofferenze viene messo più fortemente in risalto un altro tratto: l’imitazione. Il modello diventa ora la calma e rassegnata passione di Cristo sull’immagine del servo del Signore che espia di Isaia 53. E’ il passo classico per l’imitatio Christi: “Cristo vi ha lasciato un esempio affinché ne seguiate le tracce. Egli non commise peccato e nessun inganno fu trovato nella sua bocca. Oltraggiato non restituiva l’oltraggio, maltrattato non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica con giustizia”.

Forse queste raccomandazioni delle virtù “passive”, pazienza, rassegnazione e incondizionata disposizione al dolore o, come si è detto malignamente, questa mentalità di schiavo ha messo in discredito presso di alcuni l’imitazione di Cristo. Questo pensiero però è solamente un’applicazione ad una situazione determinata delle molte altre idee contenute nella sequela di Cristo. Il momento dell’imitazione è già contenuto nel concetto di sequela. La Chiesa primitiva ha dato anche un significato paradigmatico alla passione e morte del Signore, che il discepolo deve seguire. Anche in questo contesto tuttavia “imitazione” non significa un puro e semplice ricopiare, ma include sempre un camminare con e dietro al Signore. Chi imita resta un seguace. Nel rapporto del cristiano con Cristo il momento principale resta sempre la sequela di Gesù, mentre l’imitazione di Cristo costituisce solo un aspetto parziale.

Potrebbe meravigliare non poco il fatto che Paolo, uno dei massimi teologi della Chiesa primitiva, non parli di sequela di Cristo. Anche se in lui manca l’espressione, l’idea tuttavia è presente, in una prospettiva teologica ancor più profonda. Noi la riconosciamo quando sentiamo Paolo parlare di “morire e risorgere con Cristo”, di “soffrire con lui e con lui essere glorificati”. Per Paolo la vita del cristiano è tutta una vita con Cristo, un compimento con lui, dietro a lui, della sua morte e resurrezione. Questa è la via di Cristo decisiva che il cristiano deve percorrere insieme al suo Signore. L’entrata in questa partecipazione alla vita di Cristo si compie sacramentalmente nel Battesimo, che Paolo in Romani 6 considera un morire con Cristo ed essere sepolti con lui, per giungere con lui alla resurrezione. Contemporaneamente però questa diventa un’esigenza di carattere morale: morire alla potenza del peccato e vivere per Dio. In questa visione Paolina c’è un pensiero che risalta più di ogni altro, il quale potrebbe essere ignorato finché si parla soltanto di sequela: noi non solo camminiamo dietro a Cristo, ma siamo anche uniti a lui nel modo più intimo. Paolo ci insegna: solo nella comunione con Cristo è possibile la sequela di Cristo; ed essa è la realizzazione della comunione con Cristo nell’attuale situazione del cristiano.

Sequela e imitazione

I due termini sono stati spesso contrapposti, soprattutto dai protestanti che respingono l’imitazione a favore della sequela. Benché i due aspetti non vadano confusi, esiste un nesso profondo tra sequela e imitazione. Si può dire che sequela denota un aspetto religioso-salvifico; la presentazione di Gesù come modello., l’imitazione di Cristo ha una connotazione soprattutto etica. Se si esaminano i testi, si nota come l’espressione “seguire Gesù” è presente quasi esclusivamente nei quattro vangeli, mentre il vocabolario dell’imitazione non ricorre in essi, ma è ben attestato dalle lettere di san Paolo. Messo in relazione al fatto del mutamento avvenuto con la morte di Cristo, questo dato potrebbe significare che l’esigenza della sequela fu rivolta solo ai discepoli che effettivamente furono da Cristo chiamati a seguirlo durante la sua vita terrena, mentre nel periodo postpasquale si insiste sull’imitazione di Cristo, non essendo più possibile la sequela in quel senso.

Si può parlare però solo di accenti e sottolineature diverse data la connessione tra sequela e imitazione: i discepoli non sono chiamati solo a seguire Gesù e ad ascoltare la sua parola, ma anche ad assimilare i suoi atteggiamenti. L’imitazione costituisce uno sviluppo della sequela: la comunità di vita con Cristo mette i discepoli in condizione di assimilare i più profondi atteggiamenti personali del Maestro.

Inoltre, dopo la resurrezione, come si è già detto, l’accento cade sulla imitazione perché il seguire Cristo nel modo vissuto dai primi discepoli non è più possibile. La sequela e le sue esigenze però rimangono: non si tratta della fredda riproduzione di un modello, ma la comunione di vita con il Risorto è traducibile ancora con il termine di sequela.

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