Il Libro dell’Esodo: Meditazione 18


Capitolo 25, 1-40.

I capitoli 25-31 come tutti i testi che contengono prescrizioni rituali e/o giuridiche non sono di facile lettura e nel corso della storia dell’esegesi si è spesso dovuto ricorrere a spiegazioni un po’ cervellotiche per poterli accettare.

In realtà è impossibile pensare ad un popolo che non abbia un diritto e un cerimoniale che investono i vari aspetti dell’esistenza. Sono necessarie prescrizioni sul tempo e sullo spazio in cui vivere una relazione con il divino o con il potere politico, prescrizioni che riguardino anche le persone che devono guidare questa relazione e le loro caratteristiche, gli abiti e così via.

Neppure noi oggi siamo esenti dalla ritualità e, anzi, proprio il mondo laico che ha voluto rifiutare la ritualità religiosa è finito con l’essere particolarmente sensibile al linguaggio dei gesti, dei segni e dei simboli: ordini di precedenza per i personaggi di rango nel protocollo diplomatico, divise, bandiere, decorazioni, titoli: l’elenco potrebbe continuare…

Per quanto si cerchi di laicizzare o, addirittura, di dissacrare, non si può cancellare la ritualità.

Questi capitoli rientrano perciò, dal punto di vista antropologico, in una logica assolutamente normale.

All’interno dell’A.T. hanno parenti illustri: Salomone edifica il tempio a Gerusalemme di cui troveremo una meticolosa descrizione quanto a dimensioni, arredi e riti; dopo la sua distruzione Ezechiele ne progetterà un altro, secondo regole ancora più rigide e precise che si premurerà di elencare.

Esodo 25-31 è un complesso di tradizione “P” (sacerdotale), com’era logico aspettarsi, in cui compaiono elementi antichi associati ad altri più recenti: in poche parole non dobbiamo pensare che descriva il santuario esattamente costruito da Mosè, ma tiene conto di una lenta evoluzione del culto.

In Es. 25 troviamo alcuni degli arredi più importanti, e cioè:

  • vv.1-9 l’ordine divino a Mosè con l’elenco dei materiali richiesti per la costruzione degli arredi e per il culto;
  • vv.10-22 l’Arca: suoi componenti ed accessori;
  • vv. 23-30 la Tavola: suoi componenti ed accessori;
  • vv. 31-40 il Candelabro: suoi componenti, ornamenti e accessori.

Alla fine dell’intera sezione (Es.31,1ss) sono ricordati gli artigiani incaricati del lavoro: sono specialisti che il testo non esita a denominare abili e sapienti; tuttavia essi lavorano seguendo le indicazioni che Mosè riceve come in una sorta di dettatura divina. Dobbiamo perciò pensare, accanto a loro, alla presenza di un amanuense, benché non se ne parli mai, che registra le istruzioni necessarie. E’ quest’amanuense a contrassegnare il passaggio culturale di una popolazione seminomade verso una civiltà stanziale.

Vediamo anzitutto come si chiama questa specie di tempio.

Al v.8 troviamo il termine “santuario” (miqdàsh) che ha relazione con la radice dell’aggettivo “santo” (qadòsh), che significa, di fatto, “separato”.

E’ un termine che sottolinea soprattutto come Dio nulla abbia a che fare con il male, l’impurità e il peccato, Talché il luogo del culto, gli arredi e le persone devono partecipare di questa sua assoluta purità.

Al v.9 troviamo invece il termine “dimora” ( mishkàn) la cui radice richiama la “tenda” beduina, la casa da viaggio che si monta e si smonta con facilità, poco ingombrante e tuttavia facile da ampliare se cresce il numero degli ospiti.

La doppia terminologia ci porta subito a pensare che questo Dio sia e voglia mantenersi, al tempo stesso, vicino e lontano, così come precedentemente abbiamo affermato che si rivela rimanendo invisibile. Viaggia con il suo popolo, condividendone itinerari e fatiche, ma ponendo sempre davanti a loro la necessità d’essere altro. Dice infatti una tradizione rabbinica che un idolo (rappresentato da una statua o da un’immagine) può essere vicino o lontano, mentre il Dio d’Israele è vicino e lontano contemporaneamente, non circoscrivibile da nomi o in spazi determinati, ma compagno libero e solidale del suo popolo.

L’arredo più importante, custodito dentro la Dimora, è l’arca (‘aròn), di cui si parla ai vv.10-22.

Il termine ebraico si può tradurre anche con “armadio” ed è usato ancora oggi per indicare l’arredo in cui, nella sinagoga sono custoditi i rotoli destinati all’uso liturgico.

Nel nostro caso si tratta di una cassa le cui dimensioni sono all’incirca di mt.1,25×0,75×0,75. Un arredo quindi agile, non troppo ingombrante che deve segnalare la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, soprattutto in battaglia. L’arca è dunque un segno divino, senza per altro alcuna decorazione che possa, in qualche modo, far pensare che si possa dare un volto all’Invisibile.

Per il momento, stando al testo, l’arca è vuota. Solo in un secondo momento saremo informati del suo contenuto (vv.16.21): essa è infatti destinata a custodire le tavole del patto.

L’arca è chiusa da un coperchio il cui nome significa, nello stesso tempo, “coperchio” e “luogo dell’espiazione”. Alle sue estremità sono due kerubim (vv.18ss). Con questo termine s’intendono le immagini di due personaggi che, nelle culture del Vicino Oriente Antico, erano i geni tutelari della porta d’ingresso di un palazzo o di un tempio. Si tratta di due figure erette, per metà umane e per metà animali. Esse confermano che il coperchio è una soglia per l’incontro con Dio (v.22), attraversando la quale si entra in contatto con lui, cosa questa che avviene particolarmente allorché, nei sacrifici si asperge col sangue delle vittime insieme al popolo. La tradizione dell’A.T. comunque affermerà a più riprese, dal v.22, che Dio “siede” sui kerubim e da qui parla e giudica.

Si parla poi di un altro arredo: la tavola del “pane dei volti” (vv.23-30), sulla quale è collocato un pane per ogni tribù del popolo. Di questo pane speciale parleremo più avanti in diverse circostanze: è un pane sacro destinato a non essere consumato dagli uomini.

Infine ci viene descritto il candelabro (menorà, vv.31-40), di cui abbiamo certamente un’idea perché, pur in forme leggermente diverse, è diventato uno dei simboli più comuni e noti dell’ebraismo.

Una sua riproduzione, così com’era all’epoca di Gesù, la vediamo a Roma, in un bassorilievo dell’arco di Tito che raffigura la caduta di Gerusalemme: vi compaiono i soldati romani che portano via gli arredi del tempio in fiamme, tra cui il grande candelabro e le trombe d’argento usate dai sacerdoti.

La struttura del candelabro, il cui modello era forse la pianta mandorlo, come sembra attestare la decorazione, è settenaria: sette braccia (una centrale e tre da ognuno dei due lati rispetto a questa), ornate con un motivo floreale di mandorlo, e sette luci ad olio.

La struttura settenaria fa pensare che il candelabro e le sue luci abbiano relazione con l’impianto fondamentale del tempo evocato nel racconto (sacerdotale come questo) della creazione.

Se andiamo a vedere la prima settimana del mondo, Genesi 1,1-2; 4a, notiamo che in essa compaiono due grandi candelabri (il sole e la luna, 1,14-15) il cui scopo è eminentemente liturgico: segnalare le solennità, i giorni e gli anni.

Il candelabro della Dimora riflette quindi questo ordine cosmico liturgico.

Questa osservazione ne introduce un’altra più generale.

Quasi tutti noi, leggendo questi capitoli o comunque quelli in cui si descrivono ambienti, vestiti, arredi, abbiamo provato, carta e matita alla mano, a disegnarli seguendo la lettura, possibilmente rispettando le proporzioni. E quasi tutti noi, dopo qualche tentativo, abbiamo abbandonato, scoraggiati, impresa e matita.

E’ vero che, come esiste una riproduzione del candelabro a Roma (per altro alquanto più semplice di quella qui descritta), si trovano riproduzioni di palette e molle per i carboni dell’altare, e persino dell’arca in bassorilievi mosaici o affreschi provenienti da sinagoghe antiche della Galilea o della Siria (Dura Europos), ma non dobbiamo aspettarci che queste raffigurazioni siano realistiche.

Esse sono piuttosto una lettura midrashica e teologica di ambienti e oggetti che, forse perché così difficili da “vedere” hanno assunto un significato mistico.

In altre parole ciò che ha assunto importanza, nel tempo, non è stata tanto una visione naturalistica delle cose, quanto piuttosto il comando divino più volte ripetuto di fare esattamente quello che è stato mostrato sul monte (25,9.40; 26,30; 27,8…).

La Dimora, segno dell’itineranza di Dio con il suo popolo e luogo in cui le tribù si ritrovano per incontrarsi e incontrarlo, che in seguito si chiamerà la sinagoga o la chiesa, non intesa come edificio, ma come assemblea di credenti, non si costruisce avendo presente un modello umano ( come potrebbe essere un consiglio di amministrazione, per esempio, i cui membri devono essere dotati di certi titoli o caratteristiche o prerogative), ma un modello divino, le cui leggi sono quelle dell’alleanza e vengono date dall’alto sul monte.

Il che non significa, evidentemente, che l’appartenenza alla sinagoga o alla chiesa avvenga casualmente o in maniera anarchica: la minuzia con cui in questi capitoli sono date le varie prescrizioni dice, semmai, il contrario.

Si tratterà di ascoltare con attenzione quello che il Signore dice per costruire veramente la comunità dei credenti.