Il Libro dell’Esodo: Meditazione 17

Capitolo 24, 1-18.

Gran parte degli interpreti (esegeti) ritiene che i capitoli da 20 a 23 compreso, siano una specie di parentesi legislativa all’interno della narrazione. Essa si sarebbe interrotta al cap.19 per riprendere al cap.24, che ci accingiamo a meditare.

L’interruzione in realtà è solo apparente. Anzitutto non possiamo esigere che un altro racconti i fatti secondo la sequenza logica che a noi pare ovvia e non secondo le priorità che a lui stanno in cuore; secondariamente non si possono relegare le “dieci parole” e la loro prima interpretazione ad una specie d’incidente di percorso.

La sintassi del testo, nel suo insieme, mostra invece che il redattore ha scompaginato strettamente, e con maggiore o minore coerenza quanto a successione cronologica dei fatti narrati, fonti diverse, in un tutto organico, seguendo la logica di ciò che per lui era davvero importante.

Nel capitolo in oggetto, a conferma di quanto detto sopra, compaiono due centri di interesse, intrecciati tra loro. Chi ha scritto non li ha sviluppati uno per uno sino in fondo passando poi, sequenzialmente, dall’uno all’altro, ma li ha, come dire, “accavallati”.

Sono, infatti:

  • la visione dell’Eterno con un pasto di comunione: vv.1-2.9-11;
  • il rito del sangue incentrato sull’altare e la stele: vv.3-8.

Sempre nel nostro capitolo compaiono inoltre due cerniere, in altre parole due elementi che intendono introdurre ai capitoli che seguiranno.

Sono:

  • vv. 12-15° che introducono ai capp. 32-34;
  • vv. 15b-18 che introducono ai capp. 25-31.

Il primo centro di interesse contiene elementi di fonte “J” o “P”. Non presenta cioè caratteristiche spiccate riconducibili ad una fonte sola. Assistiamo, nella narrazione, ad un avvicinamento progressivo di Mosè all’Eterno, accompagnato tuttavia da testimoni autorevoli: Aronne, i di lui due figli maggiori, che faranno poi una brutta fine, narrata nel libro del Levitico (10,1-2), e settanta anziani scelti tra il popolo.

A tutti è elargita la visione di Dio.

Che cosa vedono? Essi vedono-senza-vedere, senza avere nulla davanti agli occhi: né immagini né segni prodigiosi. Sullo sfondo delle balze basaltiche del monte davanti a loro sta solo il cielo che fa da pavimento al trono di Dio ed è giustamente evocato come un manufatto lucido e compatto, perché è proprio così: terso, senza nubi, senza gradazioni di colore, quasi si trattasse di una lastra dipinta (v.10).

Ci sono dunque diversi elementi interessanti da cogliere in questi pochi versetti.

Non è detto, infatti, che per “vedere” si debba per forza avere di fronte un’immagine o un segno straordinario. Basta, al contrario, saper vedere quello che ci è posto davanti anche come un fatto ordinario.

Importante è avere la percezione dell’invisibile.

Inoltre coloro che partecipano di questa visione sopravvivono (v.11); vedremo più avanti come questo fatto sia importante, perché non si può vedere l’Eterno eppure continuare a vivere.

Infine coloro che hanno partecipato a questa ascesa mangiano sul monte, immersi in questo scenario divino: è un momento di grande intimità reciproca e con l’Eterno, quindi di vera alleanza con tutti i coinvolgimenti divini e umani, interpersonali, che essa comporta.

Il secondo centro di interesse risale alla fonte “E”.

Con un procedimento che a noi pare bizzarro, mentre è frequente nella Bibbia, troviamo un episodio incastonato nel precedente.

In apertura e in chiusura di esso c’è una formula di consenso (vv.3.7): il popolo si dichiara disposto prima a fare, poi a fare ed ascoltare rispettivamente.

Si tratta di un’inclusione importante: ciò che viene detto o letto da Mosè esige un’accoglienza attiva, non limitata alle buone intenzioni, ma impegnata nell’interpretazione e nell’obbedienza.

E’ un’accoglienza che un commento rabbinico tradizionale chiama il segreto degli angeli, ponendo in relazione il v.7 con quanto detto nel salmo 103,20:

Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,

eroi potenti, che fate la sua parola,

che siete attenti alla voce della sua parola.

Al centro di tutto sta un arcaico rito del sangue, che si può capire solo rammentando quanta importanza simbolica il sangue abbia nelle culture del Vicino Oriente Antico.

Il sangue che scorre per tutto il corpo, è la sede della vita.

Gli antichi non avevano chiara, in questo senso, la funzione del cervello e del sistema nervoso centrale, che non potevano somatizzare; sapevano però che tagliando la gola ad un capo di bestiame e facendone uscire il sangue, l’animale a poco a poco perdeva vigore e quando fosse uscito dalla ferita un ultimo flotto di sangue e un soffio d’aria calda era la fine: tutta la sua anima, ossia la sua forza vitale se n’era andata.

Da qui il divieto di mangiare e bere sangue (ancora adesso gli ebrei molto religiosi consumano solo carne perfettamente dissanguata). Se in esso sta la vita, il sangue vivo, fresco e fluido, quale che sia, attiene al mistero di Dio, Signore della vita e come tale deve essere trattato con la massima cura.

All’epoca di Gesù, per esempio, i recipienti del tempio destinati al sangue avevano la base arrotondata o a punta, per evitare che i sacerdoti li appoggiassero a terra e se ne dimenticassero, lasciandone coagulare il contenuto.

Come segno della vita doveva, infatti, essere “vivo”.

Vediamo anche qui, del resto, che chiunque può occuparsi della macellazione delle vittime (v.5), ma spetta a Mosè la manipolazione del sangue che, con la duplice aspersione, mette in relazione di vita l’altare e il popolo, il popolo e il suo Signore in relazione d’intima alleanza.

La struttura del rito compiuto da Mosè (lettura della Torah, sacrificio e manipolazione del sangue) e, in particolare, la formula del v.8 ripresa da Gesù nell’ultima cena, non possono non ricordarci la struttura e gli elementi costitutivi della nostra Eucaristia.

Di fatto, ciò che accomuna i nostri due centri di interesse è proprio l’elemento “comunione”, che compare nel primo grazie al banchetto sul monte e nel secondo grazie all’aspersione del sangue. Già nell’A.T., infatti, la comunione di vita degli uomini con Dio è degli uomini tra loro è il punto focale di tutto. L’alleanza che il Signore offre al suo popolo ha questo solo obiettivo ed è, come modello interpretativo della comunione, una delle chiavi di lettura privilegiate delle Scritture, perché ha grande seguito anche nel N.T.

Indipendentemente da questo tuttavia, questo elemento costruisce in unità anche il nostro capitolo, al di là dell’apparente frammentazione del Testo.

Infine analizziamo brevemente le due cerniere finali.

L’uso di alcuni termini in particolare ci dice che sono di fonte “E” (vv.12-15a) e “P” (vv.15b-18).

Nella prima cerniera l’Eterno compare come uno dei tanti sovrani del Vicino Oriente Antico, Ammurapi, per esempio, che ci ha lasciato uno dei più antichi codici legislativi, dato che consegna le sue leggi incise sulla pietra.

Si introducono così i capp.32-34: è, infatti, la lunga assenza di Mosè a giustificare il fatto del vitello, l’idolo che “cammina davanti a noi” (Es.32,1), visibilissimo, al contrario dell’invisibile Dio. Termine marcato, comune a questi versetti e a quei capitoli, di cui al centro, sono le “tavole”, che troviamo appunto in 32,15; 34,1.4.29.

La seconda cerniera ha il linguaggio amato dalla tradizione sacerdotale (P) con la sua insistenza sulla “nube” e, soprattutto sulla “gloria”.

Introduce la lunga sezione legislativa dei capp.25-31 in cui è descritta la costruzione del primo santuario e dei suoi arredi oltre a impartire alcune norme di culto.

Sono capitoli di non facile lettura per noi, né li leggeremo per intero, limitandoci ad un solo passo, nelle prossime meditazioni. Non sono però da sottovalutare. Vale anzi la pena di fare la fatica di leggerli. Il loro significato profondo, data la lunga serie di minuziosi dettagli e di prescrizioni, significava, nella mentalità dell’epoca che non spetta all’uomo progettare il santuario che Dio desidera. Egli deve bensì convincersi che il progetto è nei cieli e che agli uomini spetta unicamente ascoltare e interpretare per renderlo operativo.

Detto in termini moderni: non tocca a noi inventare la chiesa o la comunione: questi sono progetti divini.

A noi spetta ascoltare, interpretare e agire.

Concludendo: questo capitolo contiene preziose indicazioni di indubbia attualità. Questa sulla progettualità che è appena stata indicata, e quella sulla invisibilità di cui si è parlato all’inizio. Essa pare particolarmente importante in questi tempi di troppo facili visioni e di fede troppo alla ricerca di segni evidenti.