Il Libro dell’Esodo: Meditazione 16

Capitolo 23, 1-33.

Da Es. 20,22 fino ad Es.23,19 troviamo una sezione che parla di leggi civili, penali, rituali, detta impropriamente codice dell’alleanza (da Es.24,7), termine che, di per sé, è riferito al decalogo.

Leggiamo il capitolo, raccomandando di riprendere a casa quanto non rifletteremo insieme.

Probabilmente pochi di noi hanno simpatia per i testi giuridici che suonano noiosi e ripetitivi. E’ necessario invece avere un po’ di pazienza e provarci: scopriremo molte cose interessanti. Scopriremo forse, in particolare, che sulle norme giuridiche dell’A.T. e del mondo ebraico che le interpreta e le vive, abbiamo alcuni pregiudizi.

Il codice dell’alleanza è di fonte “E”, quindi è fondamentalmente antico; è elaborato però in tempi successivi e contiene regole stabilite più tardi. Il fatto che presenti forti somiglianze con il famoso codice di “Ammurapi” e con altri modelli legislativi, afferma che rispecchia un diritto comune al mondo semitico antico; presenta tuttavia anche caratteristiche specifiche che ne fanno un diritto proprio.

Le singole sezioni di questo piccolo corpus legislativo, a ben guardare, riprendono e interpretano i diversi articoli del decalogo, ponendoci di fronte ad un fatto e ad un criterio molto importanti e attuali: nessuna regola è viva se non viene interpretata e se non viene resa visibile secondo le situazioni che cambiano.

Essere vissuta, in quanto elemento d’alleanza è, infatti, il suo scopo. Nasce da questa realistica idea di fedeltà (bisogna sapere interpretare e cambiare per essere veramente fedeli) la concezione ebraica che Mosè riceva sul monte la legge scritta (Torah she ‘al qitab) incisa dal dito divino e la legge orale ( Torah she be ‘al pe) che è contenuta nella precedente e che l’intelligenza, il senso della storia e la spiritualità dell’uomo devono estrarre dalla prima, proprio per mantenersi adeguati all’alleanza in ogni tempo e circostanza. In buona sostanza, non il letteralismo che garantisce la fedeltà, ma lo studio.

La cosiddetta legge orale non è quindi un’invenzione umana, ma la stessa legge del Sinai che, per così dire, s’incarna via via nelle situazioni storiche che cambiano continuamente, mentre con il suo impegno d’interpretazione l’uomo collabora alla redenzione del mondo: è opportuno ricordarlo, dati i molti pregiudizi che ancora circolano sul mondo ebraico, come giuridista e formalista, ma sostanzialmente incapace di adeguarsi e d’amare. Semmai, è il contrario.

La prima sezione del testo, vv.1-9, presenta infatti una serie d’indicazioni sull’esercizio della giustizia e della solidarietà, costruite principalmente in chiave negativa. Esse esigono un’oggettività di giudizio pressoché assoluta, per la quale può non avere valore il criterio della maggioranza (v.2), e che non concede privilegi neppure al povero, il che è abbastanza sorprendente per noi.

Esigono attenzione ai beni del nemico per lo stesso amore d’oggettività e come deterrente alla libera vendetta, concessa dal diritto del tempo, come anche attenzione alla situazione del ger, termine che noi traduciamo “straniero”, ma che, propriamente significa “profugo”, “rifugiato”, come attesta la motivazione del v.9.

Lo “straniero” di cui qui si parla non è tale per libera decisione, ma uno sradicato dalla propria patria di diritto, e costretto, da straniero, a risiedere in casa altrui: Israele ha provato questa condizione in Egitto e non deve considerare la sua storia come un ricordo remoto e mezzo morto. Essa è invece il codice genetico della sua vita presente e futura.

Dovremo notare, ugualmente, come questo codice sia fatto soprattutto di massime che pur all’interno di regole specifiche, di fatto tendono a fondare un’etica e una mentalità piuttosto che una legislazione in senso stretto (definire questa, anzi, sarà nel futuro il compito dell’interpretazione).

In base ad esse povero e rifugiato sono soggetto e oggetto del diritto, non già del buon cuore, come dire che sempre e in ogni caso deve essere rispettata l’integrità e la singolarità della persona che, solo per il fatto di esserci, ha diritto al rispetto allo stesso modo che lo esigiamo per noi stessi.

La sezione dei vv.10-13 riguarda una disposizione dalle ampie conseguenze. Qui si parla non solo del sabato, come termine della settimana, ma addirittura di una settimana d’anni e di un anno sabbatico.

A prima vista questo discorso sembrerebbe fuori posto rispetto alle disposizioni precedenti. Se invece valutiamo le motivazioni di quanto è disposto, vedremo che la posizione è coerente con quanto detto sopra. Si tratta infatti dello stesso discorso di giustizia che si estende da servi, indigenti, rifugiati, sino agli animali, tanto selvatici quanto domestici, e alla terra.

Ogni abitante del paese ha diritto al sostentamento, al riposo e al rispetto: il settimo anno esprime una tensione irrevocabile alla giustizia. Come istituzione esso non fu mai operativo nei termini qui espressi, né lo scopo della disposizione era forse di essere presa alla lettera. E’ piuttosto un’affermazione profetica della signoria divina sulla creazione: nessuno è autorizzato ad impadronirsi delle risorse, così come non deve ridurre i propri simili a risorse da sfruttare.

Il v.13, del resto, ci fornisce ancora una volta la motivazione di tutto: nel paese giurato ai padri si vive nel servizio di Dio, perché servire Dio è appunto il fine della liberazione dalla schiavitù d’Egitto e da qualsivoglia schiavitù idolatria. Esso si manifesta nel rifiuto di pronunciare il nome di altri dei e nell’osservanza di regole sociali che consentano ai propri simili lo stesso servizio.

La strettissima relazione tra giustizia e rifiuto dell’idolatria è alla base della risposta di Gesù ai dottori della legge (Mt.22,34ss).

Strettamente legata alla disposizione sull’anno sabbatico sta una sezione sulle tre feste (vv.14ss) che in epoca successiva comporteranno il pellegrinaggio a Gerusalemme (Shlosha Regalim): pesah, shabau ‘ot, sukkot: pasqua, pentecoste, capanne rispettivamente. Sono feste agricole, qui storicizzate con il riferimento all’uscita dall’Egitto che diventerà il loro riferimento costante.

Queste feste saranno l’asse portante dell’anno liturgico ebraico: parlarne qui non fa che ripetere quanto abbiamo già detto: la signoria di Dio, la sua celebrazione e il suo inveramento nella giustizia sono il cuore della vita del popolo.

Troviamo poi menzionata una norma di cui non sappiamo il significato (v.19b), anche se esisteva presso altri ambiti del mondo semitico (Ugarit) un rito magico che esigeva di cuocere appunto il capretto nel latte della madre in un rito della fertilità. Potrebbe quindi trattarsi di un divieto di pratiche idolatriche. E’ in ogni caso una norma interessante perché ci permette di entrare un momento nel problema dell’interpretazione.

Non conoscendone infatti il motivo preciso, è stata presa nel mondo ebraico lungo i secoli, nella maniera più restrittiva possibile, per mantenersi…dalla parte del sicuro. Talché la cucina ebraica vieta l’uso contemporaneo di latticini e carne ( il che mette certamente in crisi gran parte della nostra gastronomia dove formaggio, salse di latte e panna sono onnipresenti e mescolati alla carne), ma vieta altresì che si assuma carne a meno di due ore di distanza da latte e derivati, ed esige, nelle famiglie molto rigorose, batterie da cucina diverse e così avanti. Tutto dipende dal proprio grado d’osservanza.

Il nostro capitolo si chiude con una sezione (vv.20-33) che rafforza quanto già abbiamo meditato. Non è un testo di tipo legislativo in senso stretto, ma ha a che fare con la struttura dell’alleanza.

I patti di vassallaggio del Vicino Oriente Antico che conosciamo prevedevano sempre, dopo le clausole su cui l’alleanza era conclusa e che qui sono rappresentate dalle diverse disposizioni legislative, una sezione finale di maledizioni e benedizioni che sancivano i rapporti tra il contraente principale e il vassallo in base al criterio se sarai fedele, benedetto te, se sarai infedele, maledetto te.

Il valore di queste formule era apotropaico, non corrispondevano cioè ad un vero progetto d’intervento da parte del sovrano che stipulava il patto, ma intendevano dissuadere il vassallo dall’infedeltà presentandogli le possibili infauste conseguenze dello spergiuro o, al contrario quelle fauste della fedeltà.

Nel nostro caso abbiamo solo benedizioni.

Tuttavia ciò che sta realmente al centro del redattore è riproporre ancora una volta, il rifiuto assoluto e totale dell’idolatria, l’unico vero peccato cui i singoli “peccati” sono riconducibili.

Al centro della sezione sta infatti (v.25) un forte richiamo al servizio divino; poi essa si chiude con un severo monito in cui si dà per scontato che l’integrazione con i filistei sia l’anticamera dell’idolatria (v.33).

E’ chiaro che un simile monito può anche essere l’anticamera dell’integralismo, di cui oggi vediamo tristi conseguenze, proprio in nome della fede religiosa, in diverse parti del mondo.

Di fatto questo non fa che dimostrare ciò che Israele ha sempre sostenuto, ossia la necessità di interpretare i testi sacri, non per amore di letteralismo, ma per l’esigenza di vivere in conformità ad essi.

Per questo un grande maestro rabbinico, ad un pagano che gli aveva chiesto provocatoriamente di spiegargli tutta la Torah nel tempo in cui egli stava su una gamba sola, rispose: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. Questa è tutta la Torah: adesso va e studia”.

Dove il doppio imperativo “va” (in mezzo alla gente, a contatto con la storia) e studia (quello che il Signore ha rivelato) è, evidentemente, il segreto per evitare sia la trappola dell’assimilazione sia quella dell’integralismo.