Il Libro dell’Esodo: Meditazione 12

Capitoli 16,2136 e 17,1-16.

Riprendiamo la nostra meditazione con l’ultima parte (come vi avevo anticipato) del racconto della manna, fermandoci a notare alcuni particolari.

Il primo è la regolarità della caduta doppia di sabato: veramente un miracolo dentro il miracolo. Il fatto naturale della resina commestibile che si può trovare stagionalmente nel deserto, già letto in chiave d’intervento divino, è ora enfatizzato con la doppia quantità sabbatica. Il tutto si protrae per quarant’anni, andando, in pratica, oltre ogni limite.

E’ abbastanza chiaro che ci muoviamo in un ambiente di forti simbolismi: non perché la manna non esista, ma perché il popolo di Dio è capace di leggere in un fenomeno che tutti possono avere visto in quella zona del deserto, un fatto destinato a lui solo dalla provvidenza, e perciò regolato da leggi divine anche per l’uso che se ne deve fare.

Il secondo è che la manna pare il cibo di un popolo che deve prendere coscienza di essere in uno stato d’infanzia e d’indigenza. Deve, infatti, ancora maturare nella sua nuova condizione di popolo libero. Il cibo che viene dal cielo gli fa sperimentare nello stesso tempo la propria dipendenza da Dio che provvede a lui. Quando, infatti, sarà maturo ed entrerà nella terra che il Signore ha giurato di dargli, mangerà il frutto del paese e del proprio lavoro. Allora la manna cesserà di cadere (gs.5,10-12).

Anche qui la lettura del fenomeno naturale è simbolica: in terra d’Israele la manna non esiste, ma il vero senso è che la stessa terra d’Israele è il gran miracolo e bisogna assumersene la responsabilità.

Come dire che ogni momento della nostra storia ha il suo miracolo, da riconoscere e da accogliere, appunto, responsabilmente.

Il terzo, infine, è che la manna assume valore di testimonianza. Deve, infatti, essere conservata per i discendenti del popolo del deserto. Quando non saranno più né infanti né indigenti, ricordino questa condizione, che è comunque quella d’ogni uomo poiché creatura di Dio.

Il racconto che segue (Es.17,1-16) ci fa affrontare due tappe della massima importanza: avranno, infatti, un gran seguito nella tradizione e nella storia degli ebrei e dei cristiani.

Si tratta di un racconto ricco e articolato in cui possiamo distinguere due momenti:

  • vv.1-7 l’episodio dell’acqua dalla roccia a Refidìm;
  • vv.8-16 la battaglia contro Amalek.

Vediamo il primo episodio.

Refidìm non è un luogo facile da localizzare stando al v.6, dovremmo essere già nella zona del Sinai.

Ora la prima cosa che ci si può immaginare è che nel deserto non ci sia acqua, almeno quanta ne possa bastare ad una discreta quantità di persone e al loro bestiame; anzi la prima cosa che la parola deserto evoca alla nostra mente è proprio la mancanza d’acqua. Perciò fa un po’ meraviglia che il popolo protesti: avrebbe dovuto aspettarselo.

In realtà il vero problema non è l’acqua, ma quello che abbiamo già visto: il cambiare vita, con l’incognita dell’accontentarsi di quel che si trova, il vivere nel provvisorio ( in fondo i miracoli della provvidenza sono pur già stati sperimentati, ma credere e fidarsi è forse il miracolo maggiore) sono le difficoltà che inducono il popolo alla ribellione e alla contesa con quel Dio che finora ha provveduto a loro in tutto.

La faccenda assume un aspetto tale che persino il luogo cambierà nome: da Refidìm che significa “Luoghi di sosta”, si chiamerà Massà e Meribà, cioè “Prova” e “Contesa”.

E’ Israele però a mettere alla prova il Signore con le sue rimostranze contendendo con lui e non il Signore a mettere alla prova la fede del popolo.

Inoltre sappiamo che “contesa” si dice rib e il termine indica un procedimento giudiziario:una forma di giudizio bilaterale in cui due contendenti si affrontano : ognuno lancia le sue accuse all’altro finché uno dei due si riconosce colpevole. Qui, appunto il popolo mette alla prova il Signore accusandolo di mettere a repentaglio la sua vita, anzi di averlo abbandonato a se stesso nel deserto (v.7).

Non lo fa subito direttamente: prima se la prende con Mosè, il quale non riesce subito a leggere la situazione; pensa veramente di essere l’obiettivo della contestazione. In realtà è il Signore a essere chiamato in giudizio.

La soluzione è un po’ singolare: non viene emessa alcuna sentenza ma Dio provvede ancora una volta.

Gli interpreti ci parlano di un Mosè rabdomante, facoltà che, certamente, nel mondo antico, confinava col divino. Resta infatti uno dei misteri della storia riuscire a capire come questa gente riuscisse a trovare l’acqua nei posti più impensati, per esempio sulle aridissime colline della Giudea dove è stata costruita Gerusalemme.

Allo stesso modo Mosè adesso trova l’acqua, si noti, con l’aiuto del bastone che egli aveva steso sul mare: tale rimando serve, ancora una volta, per connettere l’abilità umana all’intervento provvidenziale divino.

Certamente però l’elemento più toccante del testo è che Dio, in certo modo, non si sottrae alle contestazioni e al giudizio umano, ma vi si sottopone.

La seconda parte del capitolo (vv.8-16) ci mette davanti al primo della lunga serie dei fatti di guerra che costellano l’ingresso e l’insediamento del popolo nella terra.

E’ un imprevisto serio.

Non è pensabile che questa gente fosse addestrata a combattere.

Tra i tanti imprevisti del cammino di liberazione, non è questo certamente, quello di minore importanza. Dal punto di vista della collocazione storica, è probabile che l’episodio sia fuori posto, sia cioè anticipato rispetto alla sequenza logica dei fatti.

Chi è Amalek? Il nome potrebbe significare “abitante della valle”, e ricorre altre volte nell’A.T. Potrebbe indicare una popolazione Cananea stanziata nel sud del paese, con la quale vi furono forti ostilità nel momento in cui gli israeliti si insediarono nella terra: in questo senso il racconto presenta un anacronismo che vuole anticipare le future ostilità.

E chi è il protagonista del racconto?

E’ quello stesso Mosè, che nell’episodio precedente era stato il primo e prossimo bersaglio della contestazione popolare e a cui Dio si era rivolto per spiegare come stessero effettivamente le cose e per risolverle.

Ora è di nuovo preso tra la sua gente e il Signore.

Inoltre troviamo ancora il segno del bastone (v.9).

Il testo non dice espressamente che Mosè stesse pregando, come forse siamo abituati a sentire. Ci presenta invece Mosè come un generale che dall’alto dirige le operazioni di guerra facendo segnali col bastone. Cosa questa che non dovrebbe meravigliarci, perché in fondo, egli è cresciuto alla corte egiziana ed è l’unico ad avere un’autentica esperienza militare, sia come stratega sia come soldato.

Egli deve rimanere sempre perfettamente visibile, da qui la necessità di sostenergli le braccia, perché si vedano comunque le indicazioni che egli dà attraverso i movimenti del bastone.

Sul campo di battaglia c’è invece Giosuè, che combatte seguendo le indicazioni tattiche di Mosè ed è destinato a succedergli come guida e come condottiero al momento dell’ingresso nella terra della conquista.

Fedele alla tradizione appresa a corte, a battaglia finita Mosè ne lascia memoria scritta ed erige un altare in ringraziamento.

La memoria scritta consiste in un testo imprecatorio (v.14-16) il cui significato non corrisponde al progetto politico-militare di distruggere un popolo, ma vuol significare piuttosto che la vittoria è stata schiacciante. L’altare ha un nome che fa riferimento ad un palo portabandiera: come dire il popolo si raccoglie attorno ad un bastone (quello di Mosè?) che indica la presenza di Dio in mezzo ai suoi e il loro punto di riferimento.

I due episodi che abbiamo visto hanno una grande fortuna anche nella nostra tradizione o in chiave sacramentale o come allusione alla forza della preghiera. Non è possibile fermarsi su questi aspetti che fanno parte di una storia dell’esegesi molto lunga e complessa.

Notiamo invece che i due episodi si concludono in maniera uguale e contraria.

Uguale perché ambedue terminano con una specie di sentenza che riguarda Dio.

Contraria perché la prima è fortemente interrogativa e manifesta tutta la contestazione popolare:

v.7 E il Signore è in mezzo a noi sì o no?

Mentre la seconda è come una confessione di fede:

v.15 Il Signore è il mio vessillo.

Che cosa è intercorso tra le due? Come si può passare dalla rampogna alla fede? E ancora: questi passaggi sono irreversibili o possiamo sempre tornare ai nostri vecchi atteggiamenti?

La nostra esperienza di credenti ci dice, purtroppo, che si può sempre tornare indietro, come si può progredire e andare avanti.

Ancora una volta il testo ci pone davanti al nostro essere di uomini e di credenti con tutto il realismo possibile.