Il Libro dell’Esodo: Meditazione 10

Capitolo 15, 1-21.

Con questo capitolo meditiamo una delle composizioni poetiche più belle e interessanti dell’A.T.: essa compare parecchie volte anche nella nostra Liturgia delle Ore, ha una lunga storia all’interno della stessa Scrittura; e la tradizione ebraica, recepita dai padri della Chiesa a cominciare da Origene, la considera uno dei dieci canti più alti dell’A.T., talché le ha dedicato diversi commenti.

E’ bene, prima di iniziare, leggere attentamente il canto.

Si tratta di uno dei tanti salmi fuori del Salterio che compaiono nell’A.T., perciò lo mediteremo con i criteri che si usano in genere per i salmi.

Vediamo, prima di tutto, il genere letterario.

E’ un inno : inizia, infatti, con un verbo che dichiara la volontà di lodare Dio (canterò o voglio cantare), che è dunque un implicito invito alla lode per chi ascolta, seguito dalla motivazione della lode (perché trionfando trionfò).

Il suo nucleo originario è dato probabilmente da quest’acclamazione iniziale, che al v.21 riappare come semplice ritornello; da essa si sarebbe sviluppato il resto dell’inno, che evoca il miracolo del mare, ma presenta anche, come già avvenuto, il passaggio del popolo per la regione che deve attraversare per entrare nella terra giurata ai padri e il successivo ingresso.

D’altra parte chi ha seguito le precedenti meditazioni sa ormai che ogni pagina dell’Esodo è un intrecciarsi di documenti e redazioni, mentre il nostro inno se ne sta un po’ solitario, non risente di mani diverse, pur presentando come già accaduto un fatto che deve ancora avvenire.

Potremmo allora concludere che dall’acclamazione originaria si è sviluppato il resto della cantica, risalendo almeno all’epoca dei re, poiché vi si parla del tempio (v.17), e forse, più precisamente, all’epoca d’Isaia, se si guarda all’uso d’alcuni verbi.

La cantica arriva, in senso stretto, sino al v.18, e al suo interno possiamo individuare tre momenti:

  • vv.1-3 introduzione innica col tema dominante della vittoria e della signoria di YHWH;
  • vv.4-12 sconfitta del Faraone con l’acqua come elemento dominante;
  • vv.13-18 passaggio del popolo d’Israele.

Vediamo gli elementi principali di ciascuno.

Nel primo momento Dio è il protagonista assoluto. Anzi è il mio Dio, il Dio di mio Padre, il Dio del Roveto (Es.3,14): questi appellativi, assieme al nome proprio impronunziabile, eppure più volte ripetuto, YHWH, lo lasciano intendere.

Mosè qui recupera tutta la sua storia personale e quella del popolo a cui dà voce. La salvezza appena sperimentata sollecita la memoria e conduce contemporaneamente ad individuare un nome nuovo di Dio, che è ‘is’ milhama (v.3), “guerriero”.

Ad ogni impresa divina corrisponde infatti un nome: se quello rivelato nel Roveto resta centrale, quasi a titolo di compendio, di volta in volta, lungo la storia del popolo, esso è per così dire tradotto secondo l’esperienza di salvezza che si fa. E’ un po’ quello che accade nel N.T., quando si usa il termine “Padre” come nome proprio: un padre provvede e non necessariamente dà sempre ragione ai figli, ma corregge e difende, aspetta e sollecita, secondo i casi. Il volto è uno solo e può cambiare espressione secondo le circostanze e delle necessità, così anche il nome assume connotazioni diverse, s’incarna, secondo le situazioni.

Il secondo momento ci presenta invece la sconfitta del Faraone e la grande protagonista è l’acqua. E’ un’acqua simbolicamente cattiva, perché si identifica con la schiavitù: riuscire ad attraversarla equivale ad uscire dall’Egitto ed essere liberi. E’ cattiva perché uccide gli Egiziani che sono pur sempre figli di Dio; egli non si può rallegrare della loro morte, benché necessaria.

Eppure è un’acqua buona, perché il popolo che da essa emerge è riscattato o creato nuovamente da Dio, come vedremo più avanti.

L’esperienza del passaggio del mare equivale infatti per Israele a vincere un nemico storico e, insieme, le forze della creazione che sfuggono all’umano controllo: entrambi questi avversari cedono a Dio; questo è per Israele un nascere nuovo, un vero e proprio battesimo, come l’apostolo Paolo aveva ben intuito.

Ossia è il sacramento della sua salvezza.

Per contro gli Egiziani paiono qui la cifra di qualsivoglia avversario che si sia affacciato alla storia d’Israele con intenti distruttori. Essi hanno un progetto che enunciano con sei verbi d’azione (v.9): “sei”, quindi un progetto malvagio che non arriva però a compiutezza, giacché Dio impedisce loro di passare ai fatti.

Nel terzo momento YHWH assume il ruolo di guida del popolo, che deve, dopo il mare, attraversare territori in cui vivono re e popoli ostili: anche questi sono nemici tradizionali (Edomiti, Moabiti: gli Edomiti in particolare erano alleati dei babilonesi all’epoca della distruzione di Gerusalemme nel 587).

Il popolo tuttavia passa, e troviamo qui, al v.16, un verbo molto importante: qnh che significa “riscattare”, “acquistare” (ancora adesso in ebraico liqnot è il verbo che si usa nei negozi per “comprare”), ma che significa anche “creare”.

Il popolo che sta passando non è più quello di prima: il passaggio del mare lo ha fatto rinascere. L’atto redentivo compiuto dal Signore libera e, liberando, rende creature nuove. Il popolo dunque sfila sereno, quasi fosse una parata e non un cammino irto di ostacoli come vedremo già pochi versetti dopo, appena la marcia riprende. Va verso l’eredità, il trono, il santuario del Signore che , alla fine della cantica ne torna ad essere il protagonista: egli è infatti la meta dell’itinerario di cui il passaggio del mare è stato il momento chiave.

Di lui si proclama la regalità eterna che Israele ha intravisto nella vittoria contro l’Egitto.

Se ora guardiamo indietro, al complesso dei capp.1-14, fino ad arrivare alla nostra cantica, notiamo che il testo è passato per tre registri ben armonizzati tra loro.

  • la narrazione, comprensiva di antefatto remoto, vita di Mosè, promessa della liberazione;
  • le disposizioni rituali per celebrare tale liberazione prima ancora che avvenga e nel futuro, nonché la sua concreta celebrazione;
  • il canto di lode e di ringraziamento che sgorga al momento della vittoria.

Nel complesso una pedagogia perfetta per la vita di fede che deve passare per la memoria, la lode spontanea.

Dicevo infatti all’inizio che il nucleo originario della cantica è il v.21, ossia il canto delle donne guidate dalla sorella di Mosè, in una scena abbastanza facile da immaginare per l’incisività con la quale è presentata.

Nella attuale sequenza di fatti e parole è Mosè a intonare la lode, ma questo non basta a spostare l’asse dalla spontaneità alla ritualità: sono i figli e le figlie di Israele ad agire la loro liturgia di ringraziamento.