Il Libro dell’Esodo: Meditazione 5

Capitolo 4,18-29; 5,1-22; 6,1

Rispetto alla meditazione che inizieremo, sono stati tolti dal cap.4 i versetti1-17, perciò vi consiglio di leggerli in casa, recuperandoli per avere un’autentica lectio continua. Però è necessario rendere ragione del taglio, nel duplice senso di versetti tagliati e d’impostazione.

La vocazione di Mosè di tradizione Eloista/Yahwista che abbiamo visto nel cap.3, comprende anche una conferma attraverso il dono di poteri taumaturgici (4,1-9) e l’associazione a Mosè del fratello Aronne, dopo una lunga contrattazione tra lui e Dio circa le sue capacità oratorie.
Tale contrattazione non deve meravigliarci: non è, da parte di Mosè, un tentativo di sottrarsi ai suoi compiti, quanto piuttosto la normale prassi di una corte in cui non si amano le risposte dirette del tipo sì/no, considerate poco rispettose, specie in oriente.
Il fatto invece che Aronne divenga compagno (profeta dice il testo, cioè portavoce) di Mosè, senza che mai prima si sia parlato di lui (il suo nome compare per la prima volta in assoluto in Es.4,14) equivale ad una legittimazione retroattiva del potere sacerdotale giacché interprete della rivelazione data a Mosè.
Nel complesso questi versetti non sono direttamente funzionali allo svolgersi della narrazione che stiamo seguendo.

Giungiamo poi, attraverso la lettura di Es.5, fino all’Es.6,1 compreso, dopo il quale troveremo una seconda narrazione della vocazione di Mosè di fonte “P”. La divisione dei capitoli non deve essere presa rigidamente, talché 6,1 appartiene ancora al racconto di Es.5 che è il vero centro della nostra riflessione.
Mosè parte allora per tornare in Egitto, ed è abbastanza evidente che il racconto è una ricucitura di elementi eterogenei: diversa infatti è la motivazione che Mosè dà al suocero della propria partenza (v.18) rispetto a quella che viene riportata come un’indicazione divina (v.19) e sarà utilizzata da Matteo per giustificare il ritorno della famiglia di Gesù dall’Egitto (Mt.2,20).

Seguono un primo annunzio delle piaghe (vv.21-23), un misterioso episodio sulla circoncisione del figlio di Mosè (vv.24-26) e l’incontro con Aronne nel deserto assieme all’inizio dell’attività profetica di Mosè (vv.27-31).
I vv.24-26 sono particolarmente affascinanti proprio per il loro carattere misterioso. Sarebbe inutile dilungarsi in spiegazioni più ipotetiche che fondate. Basterà affermare che senz’altro si tratta di una circoncisione vicaria (il figlio per il padre, al quale viene applicata simbolicamente la membrana del figlio) e che la parola “sposo” ha la stessa radice del termine circonciso. Come tuttora avviene in molte culture, la circoncisione doveva essere all’origine un rito prenuziale che faceva parte dell’iniziazione all’età adulta. Qui invece viene applicata ad un bambino e forse il racconto ha un po’ lo scopo di incoraggiare la pratica della circoncisione in età infantile come segno di appartenenza popolare, come poi è invalso e come accade attualmente.

La nostra attenzione si fissa invece sul cap.5, che presenta temi ed elementi di particolare attualità.
Si tratta di un racconto particolarmente unitario che arriva, come s’è detto, a 6,1, di tradizione Yahwista, a parte i versetti iniziali ( di tradizione E) che fa quindi corpo con la vocazione del cap.3.
La cronaca quotidiana ci ha abituato a turbolente e contorte vicende sindacali e anche Es.5 ci pone davanti ad una specie di vertenza. Come sempre accade in queste occasioni, c’è uno slogan che ritma la trattativa:

Lascia andare il mio popolo

Che ritroveremo con grande frequenza nel racconto delle piaghe (capp- 7-11), ma che ha avuto successo anche in tempi recenti col movimento degli ebrei che volevano lasciare l’Unione Sovietica e che ritma anche un famoso Spiritual.
Esso è preceduto da una formula profetica, che ricorre spesso in forma più o meno lunga, associata a clausole diverse, e in cui Dio ha il Nome del Dio del Roveto:

Così dice il Signore (YHWH), Dio d’Israele

Ed è seguito da una motivazione, che dice tutto lo spessore di questa strana lotta:

E celebri una festa di pellegrinaggio per me nel deserto.

Ricordiamo anzitutto che il popolo in questo momento è al lavoro forzato: lavora ma non dispone del proprio tempo organizzando il lavoro come crede, né dispone di quanto il lavoro produce; nonostante il Faraone non sia più lo stesso dell’inizio del libro (in 4,9 ci è stato detto che è morto), questi ha assunto gli stessi atteggiamenti e le stesse decisioni politiche del predecessore.

Mosè non chiede migliori condizioni di lavoro, né migliori orari, né più adeguata retribuzione, cose queste che stanno per noi nell’ambito della giustizia minima di un rapporto di lavoro, ma la possibilità di una festa, in altre parole la cosa più superflua che ci sia e l’ultima cui avremmo forse pensato. Per di più chiede una festa speciale, una hag, ossia una festa di pellegrinaggio, come lo saranno in seguito le feste di pasqua, di pentecoste e delle capanne, che rendevano obbligatorio il “salire” a Gerusalemme, la sospensione del lavoro, una serie di sacrifici e tante altre cose. La vertenza è quindi su di una festa religiosa, come nel nostro mondo operaio decenni e decenni fa si scioperò per il riposo festivo.

In effetti il diritto alla festa è quello che sancisce la libertà del lavoro. Notate: parliamo di festa, non di tempo libero puro e semplice. Perché la festa ha relazione con un contenuto specifico, storico, religioso o nazionale: è un tempo gratuito, ma non un tempo vuoto, da riempire con faccende non prima sbrigate o attività passa-tempo. E’ bensì un tempo deciso o votato, con regole proprie che devono essere rispettate.
Chiedere una festa è portare subito la vertenza al massimo livello chiedendo la fine del lavoro forzato, niente di meno, e il Faraone lo capisce all’istante.

Lo percepiamo dalla sua risposta, in cui ricorre due volte il verbo dello slogan “lasciar andare” e in cui denuncia di aver colto come la vertenza non sia tra lui e Mosè o tra lui e gli Israeliti, ma tra lui e il Dio di cui non ascolterà la voce, perché non lo riconosce. Dovremmo infatti essere più precisi nella traduzione del v.2:
Disse il Faraone: Chi è il Signore (YHWH) perché io dia ascolto alla sua voce lasciando andare Israele. Non conosco il Signore (YHWH) e anche Israele non lo lascerò andare.

Per un egiziano abituato a molte divinità, il problema non è conoscerne un’altra quanto all’esistenza, ma riconoscerne l’autorità che si rivela attraverso il suo nome proprio.
La trattativa diventa subito scontro, e innesca una rappresaglia da parte del Faraone, con l’aggravamento delle condizioni di lavoro.
Come risponda il popolo non è chiaro: pare che tenti una trattativa in proprio, che esclude Mosè e Aronne (5,15ss), attraverso israeliti che collaborano col potere e sanno leggere e scrivere.
Evidentemente il passaggio ad un livello minimale di richieste non consegue alcun vantaggio. Semmai rende ancora più sicuro di sé il Faraone, certo, a questo punto, che un atteggiamento intransigente sia il più proficuo. Esso infatti riesce a far nascere il rifiuto nei confronti di Mosè, visto come contrario ad ogni atteggiamento di ragionevolezza nella trattativa.

Il testo ci mette allora di fronte ad un aspetto della personalità di Mosè che diventerà dominante nella tradizione. Denominato “servo (‘ébed) del Signore” o “uomo di Dio già nell’A.T., egli è l’intercessore, colui che prega badando non al proprio interesse o al proprio futuro, ma a quello del popolo, sicché si dice che Israele esiste in virtù della elezione di Abramo, mentre Mosè esiste in virtù dell’elezione di Israele.
Troviamo allora la prima, breve e accorata preghiera di Mosè (vv.22-23) in cui emergono già le caratteristiche che sono proprie alle altre che gli sono attribuite.
Si tratta di una supplica molto intensa, che inizia senza preamboli, e si articola con la ripetizione di un forte interrogativo (“perché?”), come accade anche in apertura di salmi altrettanto drammatici.

Notiamo però che Mosè non chiede conto del proprio destino o della propria sofferenza: chi è stato maltrattato non è lui, ma il popolo, il quale, forse, meritava più efficace aiuto di quanto egli sia:
Perché hai fatto del male a questo popolo?
Perché hai mandato me?
Mosè è il primo a trovarsi a disagio nel ruolo che gli è stato affidato perché misura la propria inadeguatezza dal risultato immediato. Il popolo vorrebbe una trattativa ragionevole, che consenta di raggiungere obiettivi concreti più che vertere su questioni di principio: il conflitto tra ragioni etico- politiche e ragioni corporative è antico e attualissimo, come sappiamo.

Ci coglie di sorpresa invece che, nella sua preghiera, Mosè non chieda nulla per se stesso, ma sia totalmente investito delle ragioni del popolo.
Sono del resto quelle che ha conosciuto nell’incontro col Roveto, divenuto la chiave di volta della sua stessa esistenza. In altre parole, Mosè sa che da quel certo momento non ha altro destino se non quello del popolo intero: o saranno liberati insieme o le sofferenze degli israeliti saranno le sue, non viceversa.
Proprio rifacendosi all’incontro col Roveto si spiega la risposta divina (6,1): tutta la storia non deve mostrare altro che la potenza del Dio dei Padri: curiosamente la “mano potente”, autentica di Dio si manifesterà attraverso la presunta “mano potente” del Faraone.