La rivelazione veterotestamentaria: Mosé

MOSE’

Un altro decisivo momento della rivelazione storica avviene nella vicenda di Mosé. Essa apporta alla storia della rivelazione due importanti contributi: la conoscenza del nome di Dio e l’alleanza. La vocazione di Mosé avviene nella teofania descritta in Esodo 3 e culmina nella rivelazione del nome di Dio (v.14). Ormai non si potrà più disporre magicamente del nome di Dio come un nome fra gli altri, come un dio fra altri, ma potrà essere invocato solo con il suo nome.
“Io sono colui che sono” è il nome definitivo di Dio nell’A.T.. Qual è il messaggio e il significato di tale nome?

Anzitutto Dio si presenta come colui che è, colui che esiste fin dall’inizio, colui che non solo ha l’essere, ma è l’essere, colui che rimane di fronte al divenire, colui che persiste di fronte al tramontare di tutto il resto. In mezzo al dramma della caducità cosmica, Dio è colui che è. Se Dio è al riparo dell’usura del tempo e della storia, significa che solo Dio è in grado di dare consistenza a tutto ciò che è privo di consistenza. Se Dio si presenta come l’esistente per eccellenza, la sua esistenza non ha bisogni di spiegazioni. L’A.T. ignora le teogonie che nelle religioni orientali tentavano di spiegare la nascita del mondo con la genesi degli dèi. Nella Bibbia non si suppone mai una scoperta autonoma di Dio (vale a dire la nascita del mondo con la nascita di Dio), un cammino progressivo dell’uomo che terminerebbe con l’affermazione della sua esistenza. Conoscere Dio significa essere conosciuti. Fuggire Dio significa sentirsi ancora perseguitati dal suo sguardo.

Se la tendenza pagana propendeva verso un dio locale (alberi, santuari, luoghi sacri…), qui Dio si presenta come un Dio personale. L’ espressione “Io sono il Dio dei padri” significa da parte di Dio una decisione radicalmente nuova: Jahvé non è semplicemente il Dio di un luogo, ma è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…, cioè un Dio di uomini. Dunque agli albori di Israele si arriva ad una concezione di Dio completamente diversa da quella dei popoli vicini. Il Dio di Israele non si colloca sul piano della localizzazione spaziale, ma su quello del rapporto interpersonale. Si può dunque incontrare dappertutto, e non solo in qualche luogo sacro, ovunque ci sia un uomo. Il Dio che si presenta a Mosé non è semplicemente il Dio inaccessibile, nascosto nel suo mistero: è il Dio che ha osservato la miseria del suo popolo e scende in Egitto per liberarlo (v.7). La sua presenza è straordinariamente attiva e attenta: Dio non è solo “colui che è”, ma è “colui che è per il suo popolo”. Egli dunque si presenta come una potenza liberatrice e come tale si presenterà a Mosé sul Sinai (Es.20,2). Il suo essere non è un essere-per-sé, ma un essere-per-noi.

Infine, quello che Dio si dà è veramente un nome? O Dio non ribadisce il rifiuto di qualsiasi nome? L’idea che qui venga respinto qualsiasi nome è avvalorata dal raffronto con altri due testi simili: si tratta di Giud.13,18 e di gen.32,30. Nel primo passo un certo Manoach chiede al Dio che incontra il suo nome e si sente rispondere: “Perché domandi il mio nome? Esso è misterioso”. Nel secondo passo, Giacobbe, dopo avere lottato l’intera notte con uno sconosciuto, gli chiede il nome e di nuovo la risposta: “Perché vuoi sapere come mi chiamo?”. Dunque il Dio che sta di fronte a Mosé non può pronunciare il suo nome come gli altri déi perché sta oltre tutte le denominazioni e rappresentazioni. Dio rifiuta di assegnarsi un nome preciso e questa ripulsa costituisce la caratteristica di Dio. Il nome di Dio sconfina così nel mistero.

“Il nome, segno di conoscenza, assurge così a cifra indicante la perenne inconoscibilità e innominabilità di Dio. In contrapposto all’opinione che sembra qui far ritenere di poter afferrare Dio, viene così messa in risalto l’infinita ed invalicabile distanza che da lui ci separa. Sotto questo aspetto, finisce quindi per dimostrarsi legittima quell’evoluzione, in forza della quale in Israele si giunse sempre più decisamente a non nominare e a non trascrivere nemmeno più il nome di Dio; sicché nella versione greca della Bibbia, esso non compare più neanche una volta, venendovi sistematicamente sostituito dalla parola “Signore”. La Scrittura esprime questa trascendenza di Dio anche con il termine Santo: per esempio la scena maestosa della vocazione di Isaia (Is.6,1-6), nella quale gli angeli si rivolgono a Dio chiamandolo tre volte Santo. Il termine santo designa solo in modo secondario la perfezione morale di Dio, indicando qui piuttosto la sua assoluta inaccessibilità, il suo mistero ineffabile, di fronte cui gli angeli voltano il loro volto e il profeta si sente perduto.

Gli eventi della liberazione dall’Egitto culminano nella Alleanza fra Dio e Israele (Es.19-24). Dio considera Israele come suo partner, suo amico: e tutte le categorie dell’amicizia verranno utilizzate per descrivere la natura di questa Alleanza, fino all’immagine, quasi paradossale, dell’amicizia nuziale. Notiamo ancora la specificità della rivelazione biblica: mentre il rapporto con Dio nelle altre religioni è sempre un rapporto da schiavo a padrone, da inferiore a superiore, Israele ha sperimentato un rapporto più profondo, pur nella consapevolezza del proprio peccato e della propria inferiorità, come quello esistente fra lo sposo e la sposa (soprattutto i profeti).

Le Strutture Fondamentali della Rivelazione Biblica – indice:

Premessa

Momenti fondamentali della rivelazione