Apocalisse: Le Sette Coppe

Capitolo 15-16. Le sette coppe

Il preludio agli ultimi giudizi di Dio risulta di un’annotazione introduttiva (v.1) e di due visioni: la prima descrive la moltitudine di coloro che hanno vinto l’idolatria (vv. 2-4), la seconda descrive la consegna delle coppe del furore di Dio ai sette angeli che hanno l’incarico di spargerle sulla terra (vv. 5-8).

L’apparizione è collocata in cielo e la realtà che Giovanni scorge è definita segno. Il “segno” si applica a una realtà concreta e storica, visibile a tutti, ma di cui si possono dare diverse letture: c’è chi si ferma alla superficie e non ne coglie il messaggio, c’è chi invece va in profondità e ne coglie il messaggio. I tre segni di cui parla l’Apocalisse sono fra loro collegati: “Un segno grande apparve in cielo” (12,3); “vidi un altro segno nel cielo grande e meraviglioso” (15,1). Il giudizio di Dio che il nostro passo introduce è dunque la conclusione della vicenda che ha inizio al c. 12: la lotta fra la donna e il dragone, fra le comunità cristiane e le forze sataniche. Ne è l’atto conclusivo: l’intervento di Dio pone fine alla furia del dragone e alle forme storiche in cui essa si incarna. I primi due segni introducono i personaggi del dramma, il terzo la conclusione.

Le grandi catastrofi della storia umana sono avvertimenti che preannunciano le calamità finali e totali che colpiranno quanti si rifiutano di ascoltare. I flagelli plasticamente descritti da Giovanni richiamano le piaghe d’Egitto al tempo dell’Esodo. Ma prima assistiamo alla gioia e alla sicurezza del popolo di Dio. Esso non va soggetto ai terrori finali, che sono specificatamente diretti contro i malvagi (16,2.9.11). L’Apocalisse ci presenta continuamente il paradiso come un luogo risuonante di canti, ma non di canti noiosi, lugubri, imposti, bensì di canti spontanei. In paradiso la vita è così bella, la gente così felice e spensierata che non può fare a meno di cantare, nel modo più naturale; la lode viene loro spontanea dalle labbra.

In questi capitoli ricompare il numero sette (sette angeli, sette flagelli, sette coppe), e questo collega la narrazione ai settenari precedenti: i sette sigilli e le sette trombe. In effetti questi giudizi di Dio ripetono i precedenti, ma sono definiti “ultimi”: in che senso?

Ultimo non ha solo il senso di cronologico, ma teologico. I flagelli sono ultimi, perché concludono il discorso e gli danno – finalmente! – un senso: se non arrivasse a questa conclusione (il giudizio di Dio, appunto) non solo la storia mancherebbe del suo ultimo atto, ma resterebbe senza senso anche tutto ciò che è accaduto prima. Esattamente come la vita di Gesù, se la privassimo della resurrezione.

La scena dei vittoriosi che cantano l’inno della salvezza è, come al solito, un’anticipazione. E difatti questi vittoriosi non sono soltanto coloro che nel frattempo hanno già conseguito la loro vittoria, ma sono tutti i vittoriosi, compresi coloro che supereranno quelle prove, le ultime, che Giovanni si accinge ora a raccontare.

Giovanni scrive del cantico di Mosè e dell’Agnello. Nell’A.T. due sono cantici di Mosè: il primo (Esodo 15) celebra il passaggio del Mar Rosso e la distruzione dell’esercito del Faraone, il secondo (Dt.32) narra i benefici di Dio in favore di Israele durante la peregrinazione nel deserto.

Il vero Mosè di cui il primo era la figura, è il Gesù Cristo morto e risorto, e il vero esodo non è la liberazione dall’Egitto, ma la vittoria sulle forze del male e l’entrata nel Regno di Dio: ecco perché Giovanni vi aggiunge “ e dell’Agnello”.

Tutti i cantici vogliono essere un incoraggiamento e un atto di fede: un incoraggiamento ai fedeli che ancora

Sono nella persecuzione; un atto di fede nella capacità di Dio di dominare gli eventi e nell’efficacia della morte/resurrezione di Gesù Cristo.

Capitolo 16. Versate sulla terra le sette coppe

L’Apocalisse racconta tre volte il giudizio di Dio, e tutte le volte utilizza lo schema del numero sette: i sette sigilli (c.6), le sette trombe (c.8-9), le sette coppe. Non si tratta di tre momenti diversi di un unico tema svolto per tappe, ma del medesimo tema raccontato tre volte. Ogni volta è l’intero piano di Dio che viene descritto. Ma con notevoli variazioni che non soltanto hanno lo scopo di rendere il discorso meno monotono, ma anche di precisarlo e, soprattutto, di armonizzarlo con i diversi contesti in cui viene a trovarsi.

E’ particolarmente interessante il confronto con le sette trombe. In tutte e due le narrazioni viene dapprima colpita la terra, poi il mare, i fiumi e le sorgenti, infine gli astri (il sole nella quarta coppa; sole, luna e stelle nella quarta tromba). Alla quinta tromba il fumo che sale dall’abisso, copre la terra di tenebre, e gli uomini sono tormentati al punto che invocano la morte e non la trovano; alla quinta coppa il regno della bestia si oscura e gli uomini si mordono la lingua per il dolore. Al suono della sesta tromba vengono sciolti il quattro angeli che sono legati sul fiume Eufrate e si scatena la cavalleria dei Parti; la sesta coppa è versata nel fiume Eufrate e i re dell’Oriente possono invadere l’impero. Le somiglianze sono dunque innegabili, come sono innegabili le differenze. Nella serie delle coppe i flagelli sono più generali: il cosmo intero è colpito, non soltanto un terzo della terra, del mare, delle stelle e dell’umanità, come invece è nella narrazione delle trombe. E poi c’è qualcosa di definitivo, di senza appello, che manca nel settenario delle trombe, tanto è vero che, alla fine, una voce che viene dal trono di Dio sottolinea: “E’ fatto”!

Nei confronti delle sciagure che colpiscono l’umanità si contrappongono due letture: una lettura “dall’alto” (la voce dell’angelo delle acque, l’altare, la voce che proviene dal tempio) e una lettura “dal basso” (espressa nella reazione degli uomini; una lettura di fede e una lettura priva di fede. La lettura dall’alto – che poi non è altro che la lettura dei fatti suggerita dalla Parola di Dio – scorge nelle sciagure che colpiscono gli uomini e nel crollo della grande città l’avverarsi del giudizio di Dio (“I tuoi giudizi sono giusti e veri”) e il compimento del suo disegno (“E’ fatto”): gli uomini hanno “portato il marchio della bestia” e ne hanno “adorato l’immagine”, hanno “versato il sangue dei santi e dei profeti” e ora raccolgono il frutto della loro malvagità (“l’hanno meritato”).

Questi uomini, che bestemmiano Dio di fronte alla violenza che essi stessi hanno scatenato, non sono semplicemente peccatori, ma peccatori ostinati nel loro peccato: peggio ancora, lo giustificano. Sono nelle tenebre e le amano (Gv.3,19), ed è questo loro amore che li rende ciechi e ottusi.

C’è dunque la lettura della fede e la lettura dell’incredulità, e la comunità deve – ovviamente – scegliere la prima. Ma non basta: la comunità deve anche trarne le conseguenze sul piano del comportamento. E’ questa, appunto, la funzione dell’avvertimento che – quasi come una voce fuori campo – viene improvvisamente inserito nello svolgersi della narrazione: “Ecco, io verrò come un ladro: beato colui che veglia e custodisce le sue vesti” (16,15).

Nella serie delle sette beatitudini dell’Apocalisse, questa è la terza. La prima (1,3) è rivolta a coloro che avrebbero ascoltato “le parole di questa profezia” traendone le conseguenze pratiche; la seconda a “coloro che muoiono nel Signore” (14,13); la terza a coloro che – nel succedersi di avvenimenti che possono sorprendere e disorientare – rimangono “vigilanti” e fedeli.

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